“Intellectus quaerens fidem”. E viceversa? La straordinaria recente passione per la filosofia

Un fenomeno si è consolidato da molti anni, fino a diventare una moda: la corsa alla filosofia. Soprattutto in provincia, dove le occasioni di acculturazione sono meno frequenti che nelle città, soprattutto se sono sedi universitarie. Dai “Festival della mente”, ai seminari e ai corsi di studio nei monasteri, alle conferenze itineranti e occasionali, alle lezioni nelle Università della terza età… la fioritura è crescente. Vi partecipano non soltanto coloro che hanno avuto un’infarinatura di storia della filosofia più o meno spessa nel periodo della scolarizzazione, ma anche dilettanti totali e novizi.

“Filosofia” è parola grossa, si intende. Di volta in volta puo’ significare fare i conti con un filosofo della lunga storia della filosofia o, piuttosto, assumere un argomento filosofico a tema: la libertà, Dio, l’anima, la natura umana… Negli ultimi anni i temi filosofici si sono intrecciati con quelli desunti dagli studi e dalla pratica della terapia psicanalitica o anche semplicemente da frequentazioni terapeutiche brevi. Questa sociologia del fenomeno, per quanto sommaria, dice molto sul ventaglio delle motivazioni che muovono migliaia di persone di ogni età su questo sentiero.

Trovare risposte alla domanda di senso dell’esistenza

Il primo filone motivazionale è la speranza che da sempre spinge gli esseri umani all’interrogazione filosofica: quella di trovare risposte alla domanda di senso dell’esistenza. Domanda strutturale, antropologica, rilevabile almeno da quando la specie homo sapiens ha incominciato a “trattare” i propri morti. A questa domanda hanno sempre storicamente risposto le religioni. Il processo di secolarizzazione che ha investito le nostre società – i credenti effettivi e praticanti sono poco più del 15% – ha lasciato scoperto il lato della risposta.

Abbandonati i lidi confortevoli delle fedi, nonostante la credenza ingenua che il benessere, la scienza, la medicina, la psicologia, le biotecnologie, l’Intelligenza artificiale… possano o fornire la risposta o attutire la domanda, questa ribolle inquietante e insistente sul fondo. La  difficoltà delle risposte non scoraggia la domanda.

Ricercare la felicità

Un secondo filone di motivazioni ha rinunciato alla ricerca della risposta definitiva; si accontenterebbe, almeno, di “una cura” dell’anima, di un “solacium”, di un conforto. Pertanto, vanno oggi per la maggiore i filosofi della ricerca della felicità o della spiegazione dell’infelicità: stoici, epicurei, nichilisti e i loro seguaci contemporanei sono molto frequentati. Gli ontologi e i metafisici, che hanno preteso di dire come è fatta la realtà, sono, al momento, fuori mercato. Che ci sia l’Essere piuttosto che il Nulla, che l’Essere sia costituito in un modo o nell’altro, che siamo in grado di conoscerlo nelle sue fibre intime e ne cogliamo solo le apparenze, interessa ormai poco.

Contano le convulsioni dell’anima e della psiche. La filosofia serve a placarle. Se alla vita non si può assegnare un senso, ma, comunque, ci troviamo a viverla, volenti o non, allora la filosofia può offrire “un galateo dell’anima”, un prontuario per affrontare l’indicibile e l’insopportabile: il non-senso del vivere, il dolore, la morte. Qui entra in campo la filosofia come terapia esistenziale, nella forma dell’analitica esistenziale. Se l’uomo è “essere-per-la morte”, proviamo a guardare in faccia questa realtà. E’ persino nata la figura del “consulente filosofico”, che a volte si offre occasionalmente anche come psicoterapeuta. La terapia consiste, sostanzialmente, nel far parlare, nel lasciar fluire la coscienza del “paziente”. D’altronde, lo stesso sacramento della confessione si è venuto trasformando in un colloquio esistenziale, nel quale sono confessati più i dolori e la fatica di vivere che i peccati.

Analizzare il linguaggio

Un terzo filone motivazionale è figlio, forse inconsapevole, dell’approccio anglosassone, inaugurato dalla settima proposizione del Tractatus logico-philosophicus di L. Wittgenstein: “Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Occorre, a questo punto, limitarsi a “vivere il presente senza timore e senza speranza”. In questo caso, la filosofia abbandona ogni pretesa di rispondere alle domande metafisiche e non pretende neppure la cura dell’anima. Si limita più modestamente all’analisi del linguaggio e, eventualmente, alla terapia del linguaggio.

Se il compito della scienza è quello di risolvere i problemi, quello della filosofia è di “dissolverli”, in base al principio pratico: se un problema si può risolvere, cessa di essere problema; se non si può risolvere, non è un che problema. Poiché le parole, apparentemente innocue, che arrivano al nostro orecchio dagli altri, dalla nostra autoriflessione, dai mass media sono cariche di storia, di idee e di ideologie, allora compito della filosofia è quello di leggere in filigrana i significati molteplici che stanno sotto la superficie dei segni e dei suoni e di metterne a nudo le nervature e le connessioni più sottili.

Se sento/dico “persona”, “libertà”, “Stato”, “individuo”, “società civile”, “l’altro”, “immigrato”, “cittadino”… il mio compito è individuare il significato condiviso o condivisibile con chi parla/ascolta per rendere la conversazione privata e pubblica trasparente a se stessa. Qui il compito della filosofia non è più quello di “salvare il mondo”, ma di costruire relazioni umane e civili, sulla base della comunicazione univoca e reciproca. E’ un filone che J. Habermas ha coltivato, tirandone delle conseguenze positive sul piano dell’agire pubblico nonostante i presupposti nichilistici. Il nichilismo analitico ambisce così a produrre etica pubblica.

Questi tre filoni motivazionali, qui astrattamente descritti come separati, possono, nella realtà, intrecciarsi nella motivazione concreta e individuale che porta ciascuno alla riscoperta della filosofia.

La filosofia per chi non ha la fede. Papa Ratzinger e il discorso di Regensburg

E qual è, a questo punto, l’approccio alla filosofia di chi ha la fortuna di avere una fede? Pare che sia ormai rimasto deserto il crocevia di Sant’Anselmo, nel quale si incontravano l’”intellectus quaerens fidem” e la “fides quaerens intellectum”. L’intelletto moderno ha dissolto l’idea che la ricerca filosofica possa avviare all’incontro con la fede, magari ripercorrendo la via ontologica di Sant’Anselmo stesso o avviandosi per una delle le cinque vie che San Tommaso ha tracciato per arrivare alla dimostrazione dell’esistenza di Dio.

Il credente a sua volta ha introiettato la sfiducia nella ragione. Il  discorso tenuto nell’Aula Magna dell’Università di Regensburg il 12 settembre del 2006 da Papa Ratzinger segnala con preoccupazione il processo di “de-ellenizzazione” del cristianesimo, in forza del quale si tende a spaccare la sintesi tra fede biblica e interrogazione filosofica del pensiero greco. Processo avvenuto per tre ondate successive: quella della Riforma, con la sua idea della “sola Scriptura; quella della teologia liberale di Harnack, che, avendo alle spalle la sintesi kantiana tra platonismo cartesiano ed empirismo, riduce la ragione alla sola dimensione scientifico-matematica e, pertanto, confina il Cristianesimo nell’ambito della pura ragion pratica, cioè dell’etica.

La terza ondata è quella del multiculturalismo, che confina il Logos greco nell’ambito delle inculturazioni possibili e contingenti del messaggio di Cristo. Se i cristiani, sembra dire Papa Ratzinger, accettano la limitazione autodecretata della ragione, quale teorizzata in Kant, allora lo spazio della fede resta fuori dalla ragione. E la religione diviene una sorta di “platonismo per il popolo”, come aveva sentenziato Friedrich Nietzsche.

Così tanto la ragione quanto la religione sono rispettivamente esposte alle patologie pericolose dell’escatologia dell’imminente delle  varie forme di messianismo laico e del fondamentalismo. Se, viceversa, la ragione conserva la sua ampiezza di orizzonti e, insieme, la consapevolezza della propria finitudine, allora il crocevia di Sant’Anselmo  può tornare ad essere frequentato.