La crisi della speranza e il futuro della Chiesa: non si può vivere la fede chiusi nei propri cortili

Lo scorso 26 gennaio, nella cattedrale di Panama, Papa Francesco ha tenuto un’omelia dai toni non banalmente rassicuranti:

Da un po’ di tempo a questa parte – ha detto tra l’altro – non sono poche le volte in cui pare essersi installata nelle nostre comunità una sottile specie di stanchezza, che non ha niente a che vedere con quella del Signore. E qui dobbiamo fare attenzione. Si tratta di una tentazione che potremmo chiamare la stanchezza della speranza. Quella stanchezza che nasce quando – come nel Vangelo – i raggi del sole cadono a piombo e rendono le ore insopportabili, e lo fanno con un’intensità tale da non permettere di avanzare o di guardare avanti.

Prendiamo avvio da queste parole in una conversazione con don Giuliano Zanchi – segretario generale della Fondazione Bernareggi e vicario parrocchiale di Longuelo, a Bergamo – sui contenuti di un suo libro recentemente pubblicato da Vita e Pensiero, Rimessi in viaggio. Immagini da una Chiesa che verrà (pp. 244, 16 euro).

Lei, don Zanchi, condivide il giudizio di Papa Bergoglio? Negli ambienti ecclesiali si è davvero diffusa una forma di stanchezza, o di rassegnazione, come se i cristiani dovessero accontentarsi di vivere in una “biosfera” distinta, separata da un mondo non più disposto ad ascoltarli?

«Credo proprio di sì. Molti hanno la sensazione di vivere in un mezzogiorno di fuoco, dove la caldana secolare toglie respiro all’azione, e sono perciò determinati a una resistenza passiva più simile all’accidia che alla testimonianza. Come il demone meridiano di cui parlano i padri del deserto scrutando le sfumature dello spirito. Si tratta della convinzione che non ci sia più alcun rapporto possibile con quella parte di umanità ormai emancipata dal vecchio paradigma credente. Molti perciò si sono rassegnati a rimanere nello spazio di sicurezza dei piccoli cortili religiosi ritagliati a macchia di leopardo nella complessità del mondo. Non è sempre un disegno deliberato. Qualcuno si è semplicemente trovato ai margini e ha deciso di rimanerci. In una condizione come questa poi viene facile nobilitare come testimonianza quello che in realtà rischia di essere solo inerzia. Senza vedere peraltro la mancanza di fede che si insinua in un atteggiamento come questo. Non bisogna generalizzare. Ma molto lavoro pastorale è appesantito da questi sentimenti».

Tra le novità che caratterizzano il pontificato di Francesco – cosa che da molti gli viene rimproverata – c’è anche un’attitudine “autocritica” rispetto alla qualità della vita e della testimonianza ecclesiali.
«Penso proprio che nel centro programmatico di questo pontificato, fra i temi salienti, ci sia certamente la specifica qualità testimoniale della Chiesa, in ogni aspetto la si possa determinare o compromettere. Si tratta contemporaneamente di una trasparenza morale dei comportamenti quanto di una serenità degli atteggiamenti, senza di cui il volto della Chiesa resta quello di un dispotismo dottrinario smentito dalle proprie contraddizioni. La determinazione del Papa sul tema si vede dal fatto che lo declina sia richiamando le grandi derive del sistema ecclesiastico, ma anche puntualizzando quasi pedagogicamente molti aspetti anche minimi della condotta del ministero. Lo fa con una determinazione e una franchezza che viene apprezzata soprattutto fuori dalla Chiesa, perché in fondo per la prima volta tutti sentono che un’istituzione smette di proteggere semplicemente sé stessa, provando a essere all’altezza della propria missione. L’indubbio sarcasmo con cui il Papa si esprime non è sempre gradito a tutti, specie ai pastori, che si sentono poi spesso esposti al facile giudizio della gente. In ogni caso mi sembra che oggi una sana coscienza di inadeguatezza sia un punto di ripartenza decisivo. Su molti aspetti. Non è un caso che uno dei capitoli cruciali di Evangelii Gaudium si intitoli NELLA CRISI DELL’IMPEGNO COMUNITARIO».

Già in altri suoi libri (per esempio, ne L’arte di accendere la luce. Ripensare la Chiesa pensando al mondo, anche questo edito da Vita e Pensiero) lei aveva segnalato il rischio di un’“infantilizzazione” dell’esperienza cristiana, di una sua incapacità di reggere il confronto con le grandi questioni e sfide del nostro tempo. Dove risulta particolarmente evidente questo pericolo? Lo si ritrova, per esempio, in un certo stile di predicazione e di catechesi?
«La finalizzazione catechistica delle nostre pratiche pastorale (di per sé stessa già problematica) ha finito a sua volta per essere una preoccupazione riservata prevalentemente ai piccoli. Non necessariamente per scelta. Il più delle volte perché i bambini sono rimasti il solo bacino umano su cui si fa un generale lavoro formativo. Mi pare però che questa particolare dedicazione della pastorale ai bambini alla lunga abbia avuto ricadute infantilizzanti sull’insieme della vita comunitaria. In specie sulle parole con cui si esprime la nostra visione del cristianesimo. Sono rimaste parole per bambini e da bambini. Anche il credente medio, salvo eccezioni che non spostano l’inerzia del fenomeno, normalmente conserva una coscienza della fede che supera di pochissimo il bagaglio nozionistico della sua ultima soglia catechistica, anche quando nella sua professione magari ha una competenza e una cultura che si esprimono a livelli di eccellenza. Le cose della fede no, restano allo stadio elementare di un pensiero proprio infantile, che poi noi nobilitiamo come fede dei semplici. Starei attento con queste nobilitazioni che nascondono solo molta polvere sotto il tappeto. La narrazione cristiana deve ritrovare un’altezza degna del suo oggetto. Proprio come patrimonio personale di ogni singolo battezzato. Non significa far diventare tutti dei baccellieri in teologia (si fa anche presto in questi casi a fare la caricatura dell’intellettualismo e fare l’apologia della religiosità popolare, con ironie che spesso rasentano l’irresponsabilità). Significa che nella media le nostre comunità devono rispettare di più la serietà del messaggio che è stato loro affidato e che non può essere ridotto a una estenuata lingua di convenzione religiosa».

(fine prima parte, pubblicheremo la seconda parte dell’intervista domani)