Figli del vento: un progetto Caritas nei campi di Romano e Trescore

« Figli del vento »: evoca immagini poetiche e suggestive il nome dato al progetto della Caritas diocesana dedicato ai Sinti (una delle etnie che compongono la popolazione romaní), iniziato nel giugno 2010 e finanziato con i fondi dell’Otto per mille. Sono immagini che appartengono alla tradizione e alla cultura del popolo dei Sinti, un popolo nomade, abituato a vivere «sotto il cielo», a spostarsi da una città all’altra. Ma corrispondono poco alla realtà di oggi e all’idea che la gente ha normalmente dei nomadi: pregiudizi e paure sono molto radicati.
«Ci siamo impegnati – racconta Serena Birolini, operatrice che segue il progetto dalla nascita – prima di tutto a conoscere la realtà in cui i Sinti vivevano. Abbiamo preso in considerazione due campi autorizzati dai comuni e costruiti una ventina d’anni fa: uno a Romano di Lombardia e uno a Trescore Balneario. Ognuno ha una sessantina di abitanti, anche se il numero delle persone varia un po’ a seconda dei periodi dell’anno. All’inizio abbiamo cercato di avvicinarci a queste realtà e di capire quali rapporti c’erano tra i campi e il resto del territorio e quali erano le necessità delle persone, avviando piccole azioni concrete».
In questi due campi abitano Sinti italiani: «Hanno tutti la cittadinanza – spiega Serena – parlano italiano, non hanno le problematiche dei rom immigrati. È bene non confonderli, anche il mondo dei nomadi è variegato, complesso, esistono etnie, culture, tradizioni, situazioni diverse. Lo scopo del nostro progetto non è mai stato assistenziale, ma educativo e di mediazione culturale. Se qualcuno aveva bisogno di assistenza lo abbiamo aiutato a creare contatti con i centri di ascolto delle parrocchie e con i servizi sociali. Ma non erano previsti aiuti concreti, a parte magari, a volte, qualche oggetto di cancelleria per i bambini, ma sempre funzionale alle attività che svolgiamo».
Tra le attività del progetto, infatti, è molto importante il sostegno all’integrazione scolastica: «Accade in alcuni casi che i bambini sinti siano spesso assenti, vadano a scuola in modo saltuario. Allora ci siamo organizzati per seguirli un po’ nei compiti e per organizzare alcuni giochi di gruppo. Li abbiamo messi in contatto con i servizi come i doposcuola gestiti dai comuni o dagli oratori. Li aiutiamo a mantenere le relazioni con gli insegnanti, cerchiamo di facilitare le comunicazioni con la scuola, di approfondire le problematiche che portavano i bambini a non frequentare le lezioni».
Alcuni interventi si sono concentrati invece sul lavoro: «Abbiamo messo a disposizone alcune borse per inserimenti lavorativi. Nei primi due anni abbiamo avuto la possibilità di offrire qualche lavoretto in cooperative ma anche lì le opportunità non erano molte, perciò ci siamo poi appoggiati direttamente alle parrocchie. Una ragazza è stata inserita nel “Progetto Care” alla Caritas». I compiti da svolgere erano semplici: affiancare i volontari in alcune attività per qualche ora alla settimana, oppure occuparsi delle pulizie o dei bambini. Poche ore alla settimana, comunque importanti: «Rappresentano un modo – spiega Serena – per fare un’esperienza al di fuori dei rapporti familiari, conoscere altre persone, altri stili di vita, cambiare mentalità. E allo stesso modo anche la comunità ha l’occasione di conoscere i sunti direttamente e di cambiare idea su di loro, lasciando da parte stereotipi e pregiudizi». La collaborazione delle parrocchie, sia a Trescore sia a Romano, è preziosa. «Alla fine – prosegue Serena – spesso gli inserimenti lavorativi hanno dato frutti indipendenti: c’è chi ha trovato un lavoro, chi ha intrecciato nuove amicizie formando una piccola rete di persone sulle quali poter contare in caso di necessità. Qualcuno ha continuato a fare volontariato anche quando il progetto è terminato, senza nessun compenso. Questo dimostra che nel progetto non contava solo la motivazione economica, l’idea di poter portare a casa qualche soldo, ma anche l’aspetto delle relazioni sociali».
Un ambito molto delicato è quello dei rapporti con il territorio: «Noi facciamo da mediatori, cerchiamo di incoraggiare gli incontri con gli amministratori, di fare in modo che le pratiche burocratiche siano inoltrate correttamente e vadano a buon fine. C’è chi ha bisogno di chiedere l’invalidità, chi tenta la strada della casa popolare». Il rapporto dei sinti con la scuola non è idilliaco: il tasso di abbandono è ancora alto. «I genitori non hanno spesso un livello alto di istruzione. Non trasmettono abitudini come quella di leggere o di andare in biblioteca che in genere si acquisiscono in famiglia, a volte non hanno gli strumenti per aiutare i bambini nei compiti. La scuola, da parte sua, non offre soluzioni flessibili, non può tenere conto della cultura e della tradizione dei sinti. A volte, poi, tende a semplificare troppo interpretando in modo automatico alcuni problemi come culturali, quando magari sono determinati da ostacoli pratici e psicologici che si potrebbero rimuovere».
Alcuni problemi non hanno una soluzione facile o non si possono proprio risolvere. E in questo ha una parte importante la diffidenza, spesso reciproca: «Anche per noi all’inizio non è stato facile entrare nel campo: abbiamo dovuto far capire che non eravamo assistenti sociali e soprattutto che non eravamo lì per portare via i bambini. Nonostante questo ci hanno sempre accolto molto bene e col tempo è nato un bel rapporto di fiducia e di stima».
Non tutti i Sinti vivono nei campi: alcuni hanno scelto di stare su terreni privati acquistati anni fa o in grandi case dove si stabiliscono famiglie allargate. «Pur vivendo in casa – osserva Serena – hanno talvolta gli stessi problemi di quelli che sono al campo. Molte volte non vengono riconosciuti dalle istituzioni come sinti e quindi per loro non vengono messe in atto le stesse soluzioni. Ci sono però anche persone che si sono del tutto integrate e per scelta ora non dicono a nessuno che sono sinti, e non hanno problemi né di povertà né di integrazione. Di solito mantengono i contatti con gli amici e i parenti che vivono nel campo, anche se vivono ormai in modo completamente diverso». Molti dei sinti sono cristiani, anche se non necessariamente cattolici: «Capita che ci dicano che è questo che li ha salvati, la fede, perché li ha spinti a darsi delle regole».