Fare giustizia nel tempo della rabbia: studenti e detenuti a confronto in carcere

È la città che entra nel carcere, perché il carcere è territorio. E allora, nel salone della casa circondariale di via Gleno, si accomodano circa settanta studenti, e presto una ventina di detenuti si aggiunge a loro. Nelle tre ore che seguiranno, s’innesca un dialogo speciale.
«Fare giustizia nel tempo della rabbia» è il titolo del quinto ciclo di seminari organizzato dalla cattedra di Pedagogia della marginalità, del conflitto e della mediazione dell’Università di Bergamo in collaborazione col carcere di Bergamo. Giovedì 7 marzo, gli universitari hanno varcato le porte di via Gleno per confrontarsi con un mondo che non può stare isolato. «Questi cicli di seminari ci hanno insegnato a essere sinceri – riflette Ivo Lizzola, professore ordinario del Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università degli Studi di Bergamo e promotore di questo percorso -. Nel confronto con i detenuti, dagli studenti sono sorte domande anche inquietanti, ma che hanno portato a produrre progetti di cooperazione. Occorre che la collettività senta il carcere come proprio: questa esperienza per gli studenti porta a una crescita come cittadini».
Il primo seminario di questo anno accademico all’interno del carcere ha messo a confronto ruoli ed esperienze differenti. Al centro, la questione della giustizia riparativa. «La rivisitazione del reato può portare il reo a capire cosa l’ha generato – sottolinea Teresa Mazzotta, direttrice del carcere di Bergamo -. La difesa sociale non si realizza solo con l’afflittività della pena: è dimostrato che per chi intraprende percorsi di giustizia riparativa la recidiva scende dal 68 al 18%». «Questo è un percorso significativo per profondità e interdisciplinarietà dei saperi – spiega Remo Morzenti Pellegrini, rettore dell’Università degli Studi di Bergamo -. La giustizia riparativa permette di gettare lo sguardo oltre la norma, riparando il danno e ricomponendo la frattura che con un reato si crea nella società».
Occorre ripensare il carcere, rivedere il rapporto tra condannato e pena, tra condannato e vittima. Un intervento schietto è quello di Luigi Pagano, provveditore regionale per la Lombardia dell’amministrazione penitenziaria: «Quando si parla di un fallimento rispetto al dettato costituzionale, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ci condanna per la violazione della dignità umana dei carcerati, quando in certe situazioni la recidiva arriva all’80%, bisogna mettere in discussione il carcere – è lo spunto iniziale del ragionamento di Pagano -. La giustizia riparativa è un metodo per cercare una strada migliore, in linea col valore rieducativo della pena tracciato dall’articolo 27 della Costituzione. Il carcere deve essere territorio, non può rimanere una realtà isolata: il reinserimento è un investimento in sicurezza».
Temi coraggiosi nel «tempo della rabbia». «Oggi certi temi sono affrontati in un clima estremamente rozzo e semplicistico, scandito da slogan securitari che alimentano paure e istinti primordiali che non fanno bene alla cittadinanza – aggiunge Monica Lazzaroni, presidente del tribunale di sorveglianza di Brescia -. Invece la Costituzione impone pari dignità per tutti, anche per i carcerati». Ogni visione è complementare e aggiunge un tassello prezioso per completare il mosaico di quella che potrebbe essere una nuova giustizia: «Non dobbiamo lasciare sole le vittime – scandisce Marco Bouchard, magistrato del tribunale di Firenze -: lasciarle sole vuol dire anche alimentare sentimenti contrastanti, fino alla vendetta. La giustizia riparativa va invece incontro alle vittime, perché attraverso la presa di coscienza del reo si ricompone una frattura». È un cammino ancora lungo, ma a Bergamo si fanno passi preziosi. Studenti universitari e detenuti nella stessa aula all’interno del carcere, perché il carcere è un «pezzo» di società.