L’onda verde dei ragazzi per le strade e lo scetticismo degli adulti: ma il mondo ha bisogno anche di sogni

Alle manifestazioni del 15 marzo per il clima hanno partecipato centinaia di migliaia di giovani in tutto il mondo. Il Global Strike for Future si è riversato come un’onda verde, allegra, solare e positiva nelle città da un punto all’altro del globo, chiedendo attenzione e azione su quello che spesso viene definito il problema numero uno della nostra epoca: il cambiamento climatico, con tutte le implicazioni a esso connesse. La comunità scientifica è sempre più decisa nell’affermare la necessità di invertire la rotta per provare almeno ad arginare le conseguenze di decenni di inquinamento, sfruttamento, incuria per il pianeta e le sue sorti, almeno quanto un nutrito numero di “grandi” del mondo è sempre più deciso nel negarla, sminuirla o mettere tale urgenza in secondo piano.

Ebbene, i ragazzi e le ragazze di tutto il mondo hanno detto no: no, non ci stanno. Non vogliono starci. Vogliono poter contare qualcosa rispetto a un’emergenza che saranno loro a vivere e affrontare direttamente negli anni a venire: sulla scia della sedicenne svedese Greta Thunberg sono scesi in piazza, a migliaia, dappertutto, anche in Italia. Avevano strisce verdi dipinte sulle guance, maschere di ossigeno sul naso a mo’ di protesta, coroncine di fiori nei capelli e cartelli in italiano e inglese: “ci siamo rotti i polmoni”, “our time is running out”, “Make Earth cool again”. Cantavano, ridevano, si scattavano selfie, postavano su Instagram sotto l’hastag #globlstrikeforfuture: con ingenuità, magari, con il candore idealista che accomuna da sempre gli slanci giovanili, ma senza bandiere politiche, senza violenza, senza che si rendessero necessari i servizi d’ordine, senza che qualcuno si facesse male. Erano belli. Sì, belli: in quelle mani dipinte di verde, in quei cartelli, in quegli slogan a favore della terra c’era la bellezza di una gioventù che sa sognare, che crede ancora in qualcosa, che scende in piazza non solo per sé ma per tutti.

Sarà che faccio parte dei cosiddetti “millennials”, di quella generazione accanto alla quale si sprecano parole come “disillusione”, “precariato”, “sfiducia”, “isolamento”; sarà che siamo cresciuti avendo negli occhi le immagini delle proteste dei nostri genitori, di quel Sessantotto che non capivamo poi del tutto; sarà che negli ultimi anni manifestazione studentesca ha significato troppo spesso polizia, scontri, guerriglia urbana. Sarà tutto questo, ma vedere quei cortei puliti e pacifici, quella marea di gente unita da un ideale comune riusciva a scaldare il cuore. Una fiammella – piena di contraddizioni magari, potenzialmente fuoco di paglia, non priva di retorica forse – capace di ridare speranza a noi, generazioni precedenti dopotutto un po’ ciniche, tanto abituate a ragionare in ottica di costi e benefici, sempre un po’ sul chi va là rispetto agli slanci troppo idealistici. Trovare del marcio nelle manifestazioni del 15 marzo significava volutamente voler distorcere la realtà.

Eppure ci sono riusciti. In concomitanza con le marce in tutto il mondo, sui social era un proliferare di articoli insinuanti su Greta Thunberg (“personaggio costruito!”), di editoriali al vetriolo scatenate contro le “lobby ecologiste” (?) che manovravano le proteste, di commenti meschini: “scioperano di venerdì per saltare la scuola”, “fancazzisti”, “poi buttano i mozziconi per terra”,”vorrei vedere se poi rinunciano al cellulare”, “va bene manifestare ma tanto quelli lì non sanno neanche perché scioperano”, “poi tutti a mangiare da McDonalds eh!”, e via dicendo. Molti – la maggior parte – scritti da gente adulta: già, proprio quegli adulti che in linea di massima se ne sono sempre fregati di clima e ambiente, quelli che hanno innescato anno dopo anno i problemi le cui conseguenze le pagheranno i ragazzini in sciopero.

Perché sì, forse Greta Thunberg è un personaggio “costruito”: e allora? Questo esattamente cosa toglie alla sua battaglia? Cambia qualcosa rispetto alla quantità di gente che è riuscita a mobilitare?

Forse sì, esistono delle “lobby ecologiste”, ma – provocazione per provocazione – mi viene da dire che forse sono meglio le lobby ecologiste di quelle che depredano le risorse e riversano fumi e materiali tossici nell’aria, nel mare, nella terra.

È vero, molti dei ragazzi e delle ragazze in sciopero non sapevano con esattezza cosa fosse il buco dell’ozono: ma davvero ci preoccupiamo di guardare quanto è sporca l’unghia sul dito che ci sta mostrando la luna? Non è che forse ci vergogniamo di ammettere che loro fegato e prospettiva ce li hanno, mentre “noi vecchi” ce ne stiamo sul divano, a digitare rancorosamente commenti cattivi, a lamentarci di tutto ciò che non va, ad addossare a loro tutta la responsabilità di cambiare tutto da zero?

Se ripenso ai miei sedici anni, non ricordo che si parlasse di clima: riscaldamento globale e sfruttamento delle risorse erano solo argomenti per i temi argomentativi, cose distanti, buone solo per costruirci sopra solide testi e antitesi. Ricordo però che siamo stati noi – generazioni precedenti – a prendere a man bassa tutto ciò che una globalizzazione distorta ci stava regalando; ricordo che siamo stati noi a sdoganare e a riempire i fast food, a far diventare grandi aziende di moda che violano i diritti umani e danneggiano l’ambiente. Ricordo che siamo stati noi a crescere con il mito dell’armadio pieno zeppo di roba per essere “fighi”. Non ricordo che ci ponevamo il problema del costo reale di tutto questo, né delle conseguenze su larga scala del nostro benessere.

Ebbene, i ragazzini per strada venerdì scorso il problema se lo sono posto. Forse parzialmente, forse sbagliando, forse ingenuamente, forse con slogan retorici. Ma se lo sono posto. E quindi noi possiamo fare solo due cose: scendere in strada con loro (molti l’hanno fatto), oppure avere – almeno – il buonsenso di tacere.

(Foto della manifestazione a Bergamo by Oratorio Nembro)