La morte e la speranza cristiana. Monsignor Vincenzo Paglia: “Non è la fine, ma una seconda nascita”

“Vivere per sempre”(Piemme 2018, Collana “Religione e Spiritualità”, pp. 204, 17,50 euro), con il sottotitolo “L’esistenza, il tempo e l’Oltre”,è il nuovo saggio di Vincenzo Paglia, nato a Boville Ernica (Frosinone) il 21 aprile 1945, presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del Matrimonio e della Famiglia.

Abbiamo dialogato con Mons Paglia che ha scritto un libro molto attuale trattando un argomento tabù per la nostra società. Il saggio parla infatti del trapasso, del decesso, della fine vita che, diciamolo francamente, spaventa tutti noi, credenti e non, anche quando riguarda persone a noi care, eppure il titolo è “Vivere per sempre”. Come mai?

«Per questo nuovo libro ho preso spunto dalla speranza cristiana. Gesù vive fino a 33 anni cercando di fare del bene a chi ha bisogno. Poi viene ucciso, è una morte che fa paura anche a Lui, tanto che suda persino sangue e chiede al Padre di allontanarla. Comunque accetta la morte e quel che accade dopo sconvolge tutti, perché quest’uomo risorge. La morte non è stato l’inabissarsi nel nulla. Gesù Cristo è risorto con i segni della Passione per indicare che era proprio lui ed è apparso ai suoi discepoli che hanno faticato prima di poter accettare questo evento. Gesù ci ha messo 40 giorni per convincerli. In tal senso questo passaggio drammatico della morte nella narrazione evangelica appare in qualche modo superato. La morte non pone fine alla vita, da qui il discorso del “Vivere per sempre”».

Questo però è vero per chi crede, e per chi non crede?

«Anche la ragione in qualche modo chiede che la vita continui. C’è un istinto nel cuore di ogni uomo e di ogni donna che spinge a non credere che tutto termini nel nulla. Facciamo fatica ad accettare quello che diceva Sartre “siamo una paren­tesi fra due nulla”, non è possibile che la ragione accetti che tutto quello che amiamo, che abbiamo fatto e sperato sia spazzatura da scartare. Certo ora facciamo fatica a comprendere come questo possa avvenire. Ecco allora che la fede incontra in qualche modo il bisogno della ragione. Incontra questo “istinto della ragione”. Ed è in questo senso che nel libro ho chiesto che credenti e non credenti debbano ritrovare una nuova alleanza anche nella riflessione sul tema della vita oltre la morte».

A cosa serve questo dialogo?
«Serve a scoprire di non essere in balia del destino, che abbiamo una destinazione, vuol dire comprendere che noi non siamo in un caos senza luce, senza una prospettiva futura. Siamo certamente mortali ma la fede cristiana offre a questo istinto del cuore una realtà “assolutamente” unica, che è quella della resurrezione della carne. Unica perché vuol dire che la vita dopo la morte non è slegata da quanto abbiamo vissuto, è legata ai nostri incontri, alle nostre speranze, al nostro corpo inteso come identità, come sensibilità. Direi che noi risorgiamo anche con i nostri sensi, non sappiamo come, tuttavia ci vedremo, ci abbracceremo, ci sentiremo. Come non lo so dire, l’unica immagine che descrivo nel capitolo centrale del saggio è quello che accade in quei 40 giorni della Resurrezione. Gesù risorge con il suo corpo, lo vedono, anche se non lo riconoscono, mangia, anche se è spirituale, è risorto, ecco perché la Chiesa dice nella “Liturgia della Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti”: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata”. In questo senso noi non abbiamo una paura infinita e angosciante della morte, abbiamo una paura che viene in qualche modo educata dalla fede. Dobbiamo parlare della morte e toglierle il “pungiglione” dell’angoscia. Abbiamo la consolazione di questa speranza della fede che ci presenta il futuro come un giardino, Paradiso vuol dire giardino, come una città, dove tutti i popoli vivranno in pace. È questa la nostra destinazione».

Allora il futuro è nell’aldilà?

«In realtà noi cristiani più che credere nell’aldilà, crediamo che la vita sia eterna, cioè che l’aldilà comincia già qui. Ecco il significato del titolo del mio libro. Il Paradiso e l’Inferno iniziano già sulla terra, l’Inferno sono le guerre, è ad Aleppo, è il Mare Mediterraneo quando si riempie di vittime innocenti, l’Inferno sono gli anziani scartati, le donne violentate, le discoteche dove muoiono giovani vittime innocenti. Il Paradiso invece è tenerci per mano e consolarci a vicenda, la visita ai carcerati e ai poveri e il sostegno ai più deboli, edificare un mondo più giusto. La preghiera del “Credo” dice: “Credo nella Resurrezione della carne e nel mondo che verrà”».

Ma nel “Credo” c’è anche la frase che dice, Gesù “discese agli Inferi”…

«Questo è un importante insegnamento sul quale poco riflettiamo, perché anche noi cristiani, come Gesù, dobbiamo discendere agli Inferi, negli inferni del Pianeta per svuotarli, per non renderli eterni. Nell’ultimo capitolo del libro questo è evidente, perché riporto il racconto utile per compren­dere quel che sta accadendo nei campi in Libia. Ahmed, un immigrato riuscito ad arrivare in Italia, ri­ferisce che lì in tanti dicono: “È meglio morire in mare che rimanere in Libia”. Il campo dove lui si trovava, era un inferno per migliaia di persone: dentro stanze come cloache sono ammassate persone su persone, spesso senza mangiare. Questo non è forse un inferno? Ecco perché quel passaggio del “Credo” impegna tutti noi oggi a crescere in fraternità e non in odio, in giustizia e non in violenza, in pace e non in guerra. Allora la riflessione sulla morte non ci allontana dalla vita presente, anzi è esattamente l’opposto. Se non abbiamo uno sguardo sulla destinazione, rischiamo di non comprendere l’oggi, se invece la conosciamo, ossia tutti siamo impegnati ciascuno per la sua parte a edificare terre e cieli nuovi, allora comprendiamo quella vocazione che tutti abbiamo a rendere questo mondo migliore, a partire da casa nostra».

In passato la morte era concepita come un passaggio fondamentale dell’esistenza umana e riguar­dava sia il morente sia i famigliari, anzi l’intera società. Non era un evento qualsiasi. Per il morente si trattava di “gestire” il completamento della sua vita. Invece nella nostra società non si parla più della morte. Perché?

«La cultura contemporanea è una cultura narcisistica che ci fa mettere la testa sotto la sabbia, quindi non vuole che vediamo la realtà. Questo è il mondo dei forti, dei sani, dei belli e dei ricchi. Una grande illusione che fa restare la realtà nella sua tristezza, ingiustizia e violenza».

Molti credenti considerano la morte come amica. Pensiamo a Francesco d’Assisi, che l’ha chiamata “sorella” e per la quale arriva a benedire il Signore.

«La morte fa paura a tutti, ma vista nell’attesa del passaggio e non come una fine, può diventare amica, perché ci permette di pensare che “il meglio deve ancora venire”, prendendo a prestito un paragrafo del volume. Cioè l’incontro con Dio».

Papa Francesco ha detto ai fedeli lo scorso ottobre durante una catechesi: “Quando Gesù ci prenderà per mano e ci dirà, “vieni con me, alzati”, lì finirà la speranza e sarà la realtà della vita. Gesù prenderà ognuno di noi con la sua tenerezza, la sua mitezza, con tutto il suo cuore. Questa è la nostra speranza davanti alla morte. Per chi crede, è una porta che si spalanca completamente; per chi dubita, è uno spiraglio di luce che filtra da un uscio che non si è chiuso proprio del tutto. Ma per tutti noi sarà una grazia, quando questa luce ci illuminerà”. Che cosa accade inquesto “faccia a faccia con Dio”?

«Credo che in questo “faccia a faccia con Dio” accade quello che avviene in ogni incontro: ambedue si modificano. Quando ci s’incontra, non vince l’uno o l’altro, vince l’incontro che ci modifica vicendevolmente. In questo caso il volto misericordioso di Dio ci purifica da tutto. Quindi noi nello stesso tempo sentiremo il dolore di quando ci vengono tolte tutte le “zozzerie”, per meglio rendere l’idea, e la gioia di un Padre che ci abbraccia. Dio in quel momento è felice, è come il Padre della parabola. Ecco perché dobbiamo considerare la morte amica quando la concepiamo come una porta che si apre. Impariamo dunque a pensare alla morte come a una seconda nascita», conclude Mons Paglia.