La Crocifissione di Antonello da Messina. Giovanni Villa: un pittore capace di unire le grandi culture del Mediterraneo

Nella mostra Antonello da Messina che si sta svolgendo presso le sale espositive di Palazzo Reale a Milano, fino al giorno 2 giugno 2019, sembra di entrare nella pittura del maestro siciliano, considerato il più grande ritrattista del Quattrocento, che ha lasciato una traccia indelebile nella storia della pittura italiana.

La mostra, frutto della collaborazione fra la Regione Siciliana e il Comune di Milano-Cultura con la produzione di Palazzo Reale e MondoMostre Skira, curata da Giovanni Carlo Federico Villa, presenta diciannove opere di Antonello da Messina (1430-1479) su trentacinque che ne conta la sua autografia. Attraverso questi meravigliosi dipinti si ammira il grande intuito del Maestro siciliano, cioè quella capacità di mescolare la scuola veneta all’espressività mediterranea e all’uso fiammingo della pittura a olio. I capolavori provenienti da grandi istituzioni italiane e internazionali come National Gallery di Londra, Uffizi e Philadelphia Museum of Art, dialogano con i preziosi schizzi e appunti di Giovan Battista Cavalcaselle, profondo conoscitore di Antonello da Messina, che mise insieme il primo catalogo delle sue opere nella seconda metà dell’Ottocento.

Della potenza evocativa di questa imperdibile esposizione e della storia del primo pittore italiano a usare la pittura a olio, ne parliamo con Giovanni Carlo Federico Villa, nato a Torino nel 1971, professore di Storia dell’Arte Moderna presso l’Università degli Studi di Bergamo.

La “Crocifissione” (1460 ca.) proveniente dal Muzeul Național Brukenthal di Sibiu in Romania, inaugurò uno dei temi base della produzione del Maestro siciliano, quella del martirio di Cristo e ha una doppia matrice stilistica?

«La “Crocifissione” di Sibiu ci racconta Antonello al suo esordio capace di unire le grandi culture del Mediterraneo. Riconosciamo dalla falce del porto Messina con una prospettiva lunga, di fronte alla città Antonello pone le Isole Eolie, in realtà non visibili dalla città siciliana. C’è questo mirabile racconto della natura dalla grande concretezza paesaggistica, vediamo il mare punteggiato dalle vele che lo animano, vediamo una folla quasi inconscia di quello che accade sul Monte del Calvario. Sul Calvario vediamo stagliarsi i tre crocifissi, Cristo, ormai irrigidito dalla morte, il buon ladrone che si sta lasciando andare in un ultimo afflato, ma ormai sta morendo, il cattivo ladrone che ancora si contorce mentre due corvi si appollaiano sul suo albero. In basso i ploranti. Qui abbiamo una poesia di narrazione del sentimento del sacro che è qualcosa di straordinariamente originale. Una Maria si copre il volto con le mani, un’altra volta le spalle al Cristo crocifisso, San Giovanni misura il campo del dolore con le mani aperte, la Madonna si chiude le mani strette al petto nel suo dolore, la Maddalena allontana da sé questo dolore allargando le mani. Ecco la capacità di Antonello di raccontare le emozioni e gli affetti del sacro in un paesaggio di matrice fiammingo-catalana e quindi unire le grandi culture del Mediterraneo».

Un sentimento di dolore e di delusione traspare dal volto di Gesù nell’olio su tavola presente in mostra “Ecce Homo” (1475) che proviene dal Collegio Alberoni a Piacenza. Il Maestro in questo eccezionale dipinto ha voluto esaltare l’umanità del figlio di Dio?
«Assolutamente sì, l’artista ci ha dato un Cristo che si è letteralmente fatto di carne e sangue. Cristo è ancora legato alla colonna, la corda intorno al collo, poi vediamo le stille di sangue che sgorgano dalla corona di spine, le lacrime ottenute con un colpo di resina andare a imperlare le gote, una barba e i capelli madidi di sudore. Ma tutto si riassume nello sguardo di Cristo, uno sguardo in cui non c’è più iride, non c’è più pupilla, uno sguardo perso in un vuoto nella domanda che Cristo pone a noi, del perché di tanto dolore».

 

Antonello da Messina è stato un singolare artista che ha avuto il grande merito di saper sintetizzare il rinascimento italiano con le altre innovative tendenze pittoriche europee, in particolare con la pittura fiamminga. Fondamentale in questo senso fu l’apprendistato del messinese presso il pittore napoletano Colantonio. Ce ne vuole parlare?

«Antonello da Messina nasce in Sicilia in un periodo storico in cui l’isola è dominata dallo spagnolo Alfonso d’Aragona, re di Sicilia e di Napoli, quindi il luogo della sua formazione, Antonello era figlio di un capomastro e nipote di un comandante bizantino che faceva la spola tra Sicilia e Calabria, è inevitabilmente Napoli. La Napoli che da poco è passata dal Re Renato d’Angiò, Signore di Provenza e Fiandra, al dominio di Alfonso d’Aragona, un sovrano volto verso la Spagna. Il maestro di Antonello, Colantonio, è un artista che osserva tutto quello che arriva in città e anche i suoi allievi. Tra questi Antonello da Messina. A Napoli in quegli anni arrivavano i grandi capolavori fiamminghi ma erano anche presenti i grandi artisti del bacino mediterraneo. Colantonio prima, ma soprattutto Antonello, avrà una grande capacità di osservare, accettare queste istanze pittoriche e legarle con la prospettiva e la capacità di lettura dello spazio squisitamente italiani. Emblematico di tutto questo percorso sarà nel 1473 uno dei più alti capolavori di Antonello “San Gerolamo nello studio”, proveniente dalla National Gallery di Londra, dove si nota la capacità di Antonello di fare sintesi».

Per quale motivo l’ “Annunciata di Palermo” (1475-1476) conservata presso la Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis a Palermo, viene considerata la sintesi dell’arte di Antonello da Messina?

«Non è solo la sintesi dell’arte di Antonello ma l’ “Annunciata” è anche uno dei dipinti più celebri di Antonello e della storia della pittura occidentale. Qui il pittore messinese ha la capacità di creare un’immagine femminile senza tempo nella sintesi formale che riesce a dare al volto. Per la prima volta un’Annunciazione in cui c’è la Madonna Annunciata ma manca l’angelo annunciante. L’Angelo annunciante siamo quasi noi i fedeli che s’inginocchiano di fronte a questa Madonna portando l’annuncio. Ci rendiamo conto che l’Angelo è appena arrivato, il libro sul leggio ha le pagine sfogliate dal refolo di vento giunto con l’Angelo. La Madonna ci fa un gesto di sereno accoglimento rivolgendo verso il basso lo sguardo. Ancora oggi se ci inginocchiamo di fronte al dipinto, recuperiamo la prospettiva immaginata da Antonello. Ma l’aspetto straordinario è proprio quello di non aggiungere nessun dettaglio superfluo a questa immagine. Un’immagine assoluta nella sua “pulitezza” di quella che Roberto Longhi chiamava “la sintesi prospettica di forma e colore”».

Il poetico olio su tavola di pioppo “Cristo morto sorretto da tre angeli” (1476-1477) che arriva dal veneziano Museo Correr, attribuito ad Antonello solo nei primi anni del Novecento presenta una scelta prospettica che colpisce chi osserva il dipinto. Che cosa ne pensa?

«Qui Antonello ci dà un’immagine di straordinaria altezza. C’è questo Cristo concreto, reale, carnale, che con il suo peso piega le gambe agli angeli che tentano di sollevarlo sul Sepolcro, le gambe di Cristo prospetticamente gettate verso di noi. Con questa immagine collocata all’interno di un cimitero al di fuori della natia Messina, Antonello riesce proprio a cogliere l’essenza del Cristo che per noi si è sacrificato».

La struggente “Madonna con il Bambino” (1480) proveniente dall’Accademia Carrara di Bergamo, opera del figlio di Antonello, Jacobello, ha una storia particolare. Ce ne vuole parlare?

«Il dipinto viene eseguito dal figlio di Antonello un anno dopo la sua morte ed è l’unica opera datata e firmata dal figlio Jacobello. Vediamo la distanza clamorosa dal padre, un padre che è inimitabile nella sua capacità di cogliere il sentimento del sacro, le emozioni dell’uomo ma anche una resa psicologica proprio dell’umanità. Jacobello che comprende tutto questo, in quest’opera si firma: “Jacobus Anto.lli filiu no / humani pictoris me fecit”, cioè “Jacobello di Antonello figlio di un pittore non umano”. L’iscrizione “non umano” allude al genio inimitabile del padre Antonello da Messina».