Addio a don Roberto Pennati, malato di Sla per 24 anni. Nelle sue parole l’enigma della sofferenza e il coraggio della fede

È morto don Roberto Pennati, prete della diocesi di Bergamo che da 22 anni combatteva con la SLA, una malattia che spegne progressivamente ogni movimento volontario. Ha lasciato con le sue parole e i suoi libri una testimonianza luminosa di fede, coraggio e speranza. Per ricordarlo riproponiamo oggi questo suo dialogo con il teologo Pierangelo Sequeri, raccolto da Daniele Rocchetti e pubblicato per la prima volta qualche anno fa, nell’agosto 2015.

Foto: don Roberto Pennati

Un prete ammalato gravemente, un teologo affermato che accetta, sul tema della sofferenza e del dolore, un dialogo a tutto campo. Un confronto sulle grandi domande di sempre. Alla ricerca di risposte non troppo scontate.

Ho un amico molto caro. Il suo nome è don Roberto Pennati, un prete della nostra diocesi. Diciannove anni fa (aveva allora 50 anni) gli hanno diagnosticato la SLA, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia del sistema nervoso, che colpisce i muscoli del movimento. Sta perdendo forza alle braccia e alle gambe. Anche se per il momento riesce a fare ancora parecchie cose da solo, ha bisogno di aiuto per vestirsi, lavarsi, mangiare. La domenica, attorno ad una grande tavola, celebra la Messa seduto. Non si conosce la causa di questa malattia e non c’è una cura. Alcuni anni fa ho invitato don Pierangelo Sequeri a dialogare con lui. Questo che segue è la trascrizione di una parte di quell’incontro.

Don Roberto Pennati
La mia malattia ha scosso la mia fede. Soprattutto nei primi tempi un rancore sordo contro Dio e la vita, che aveva ‘voluto’ questa prova per me. Voluto no, però permesso sì? Che differenza fa?

Don Pierangelo Sequeri
Considero una fortuna, per me, il fatto che nel momento in cui diventavo sacerdote e subito cominciavo ad insegnare teologia, iniziavo il ministero in una parrocchia di Milano in costruzione. Lì ho avuto la sorte di incontrare alcune famiglie con bambini handicappati psichici gravi, quelli, cioè, che ti feriscono e non ti lasciano nessuna possibilità d’interlocuzione, d’incontro. La combinazione fortuita era che tre o quattro di quelle famiglie, credenti, tentavano, per la prima volta in Italia, di dar riflessione e forma alle comunità, avviate in Francia, di Jean Vanier. Le loro domande e loro interrogazioni le ho patito dentro di me con grande imbarazzo interiore, come uno che scopre una stanza della sua vita che mai avrebbe sospettato di avere. Esse mi rimandavano un’immagine ecclesiastica del cristianesimo regolata fondamentalmente da due gesti: il primo evidenziato dal protocollo del diritto canonico per il quale i bambini down, non capendo niente, non erano obbligati ad avere a che fare con la vita della comunità cristiana; il secondo era quello di considerare questi bambini come una grazia, segni di una speciale predilezione di Dio. Detta così sembrava una provocazione… solo che invece di restare fulminato, il sacerdote che la pronunciava ad essere fulminate erano le famiglie… Qualcosa non andava… Però analoga mortificazione mi veniva ugualmente in merito alla soluzione di pensare Dio lontano da quelle storie, da quei volti. Perché se uno mi toglie la possibilità di avere Dio con il quale protestare, se uno mi dice che è soltanto un’invenzione della religione e basta pertanto liberarsene, a me sembra che sono perduto allo stesso modo.

Don Roberto
Da dentro questa mia esperienza ho cercato di comprendere il rapporto tra Dio e il mondo creato. Non ho trovato una riflessione seria. Il testo che imposterebbe bene il problema è quello del cieco nato, del vangelo di Giovanni. Sta nella natura delle cose che questo succeda. Io credo con convinzione all’abba-Padre, di cui mi fido pienamente. E prego continuamente di riuscire a fidarmi di Lui. Mi faccio però sempre una domanda. Come mai non so rendere ragione, dare una motivazione onesta delle sofferenze di tanti uomini? Nei tuoi libri ogni tanto incontro alcuni passaggi che si avvicinano al punto che mi interessa chiarire, ma poi… sfuggono. Ad esempio quando accenni alle “malattie mandate da Dio”, tu fai chiaramente intuire che non sono mandate da Dio. Ma per sostenere questa convinzione non viene data nessuna spiegazione. A conferma di questo, ancora in un altro tuo testo (“Senza volgersi indietro”) ti chiedi come sia potuto succedere che molti credenti vedono Dio che distribuisce sventure e maledizioni oppure come sia potuto succedere che la gente creda che “non cade foglia che Dio non voglia”. Non credi che toccherebbe a noi preti spiegare come siano nate queste “credenze”?

Don Pierangelo
Sono stato fortunato: io questa idea del “non cade foglia che Dio non voglia” proprio non ce l’ho dentro… Non penso cioè che Dio faccia nascere un bambino handicappato in Italia per guarire un peccatore in Australia… Volendo evitare sia la risposta ingenua e consolante sia il rifiuto e la protesta, ho cercato a lungo. Mi sono restate, alla fine, due convinzioni. La prima è che non c’è nessuna esperienza, torsione o contraddizione della vita, che possa impedirmi di farne conto con Dio. È una risorsa al di là della quale non vedo molto altro. Ho come la percezione che siamo sempre nella relazione con Dio, magari segnata dal risentimento, dalla distanza, dall’invidia e dalla gelosia… però siamo sempre in legame con Dio perché una relazione astratta con Lui non esiste. Dentro questo legame, anche un uomo solo può protestare contro tutto e tutti e può levare il suo grido con la buona coscienza di dover essere ascoltato. Anche se è solo. Il secondo nocciolo, per le poche cose che io posso imparare dall’evangelo e in cui posso riconoscere un principio buono del mio legame, è che guardando l’atteggiamento complessivo di Gesù io vedo che con questa lotta, tensione e contrasto Gesù si identifica… Inoltre in Gesù vi è la totale mancanza di rispetto nei confronti della malattia “teologica”. Prova a pensare all’episodio della donna che aveva perdite di sangue. In quel caso, Gesù non allontana la donna né lascia pensare che ciò che le capita abbia a che fare con Dio. No, si gira e le dice che ha avuto coraggio, la riconosce e la benedice. Come a dire: “Hai fatto bene a toccare il mantello, a non esserti fidata di quanto ti hanno insegnato, ad aver avuto il coraggio di toccarmi”.

Don Roberto
Un punto di partenza potrebbe essere rispondere a questa domanda: come mai il Signore non ha mai rimproverato il Padre suo dell’esistenza di tutti i malati che incontrava, e poi mettere questo in relazione con il suo desiderio di guarire quelli che incontrava. Noi diciamo, e giustamente, che la libertà di Dio è per il bene dell’uomo, sempre. Io credo profondamente a questo. Ma perché facciamo così fatica a dare spiegazioni di questo? Il non riuscirci è mancanza di fede? In un tuo libro c’è questa affermazione: “Tutto l’armamentario teologico della grazia – predestinazione e della redenzione – riscatto va ripensato”. (“Sensibili allo spirito”). Non è un po’ tutto questo il problema? E ancora: quale rapporto serio tra la Croce di Cristo e la sofferenza dell’uomo? Perché offrire la propria sofferenza per il riscatto dei peccati è una cosa, pensare che la sofferenza e la malattia siano un castigo per i peccati è un’altra cosa.

Don Pierangelo
Io concepisco la crocefissione come un espediente per il risparmio della sofferenza e del dolore che spezza ogni logica di giustificazione religiosa al male. La croce è un atto geniale di supremo risparmio e mi sconvolge perché in tutte le religioni c’è una proporzione tra il versamento del sangue e la risoluzione del dolore. Sono sconvolto dall’idea che qui invece ci sia questa economia: il Figlio astutamente riesce a fare in modo che, come conseguenza di tutto il male del mondo presente passato e futuro, si faccia male solo lui. Vedo l’anticipazione visuale di questo gesto non nella croce – perché voglio continuarla a vedere come l’effetto schifoso delle potenze mondane che si approfittano anche dell’uomo innocente, che lo crocefiggono in nome di Dio – ma nell’orto quando Gesù dice: “prendete me e lasciate gli altri”. Gli stessi ai quali ha detto “se non mi testimonierete coraggiosamente davanti agli uomini io non vi conoscerò davanti al Padre” e glielo ha detto quando stavano bene. La croce è dunque l’invenzione del risparmio del sangue: Dio che contro tutti i protocolli delle religioni fa il contrario e dice “tutte le volte che riuscite a fare lo stesso e cioè versare il vostro sangue e risparmiare quello degli altri, tutte le volte che in un conflitto terribile riuscite a farvi male solo voi, lì c’è il segno del vangelo”. E a nessuno potrà essere prescritto di farsi male più del Figlio. Inoltre, qualunque cosa succeda, comunque succeda, per la cattiveria degli uomini o per il limite della natura, questo non cambia la natura del gesto, gli indica però una prospettiva. Non risolve ma indica una prospettiva. Gesù dice, all’occorrenza, “offri la tua guancia”, non dice “offri la guancia di tuo fratello”. È come se volesse dire: “a me con l’aiuto di Dio potete fare quello che volete, sono pronto a sforzarmi di non alimentare la spirale della rappresaglia e della violenza, però state attenti a come fate con mia sorella”. Io ho visto Gesù fare così: di fronte a quelli che volevano offrire il lebbroso in sacrificio lui non lo ha permesso. Inoltre, tutti i gesti attraverso i quali Gesù attesta di essere il Messia, anche di fronte a Giovanni Battista, sono gesti di liberazione dal male. Ora questo modo di compiere miracoli non c’è in nessun altro racconto di religioni e neanche nel Nuovo Testamento tutto: c’è soltanto nel segmento occupato da Gesù. Ed è un modo che fa brillare la sua differenza anche all’interno della tradizione di cui pure si nutre e che porta a compimento ma con la quale compie anche una rottura.

Don Roberto
Un aspetto su cui mi permetto di insistere, è chiarire qual è il rapporto tra Dio e le leggi della natura. Qui abbiamo paura di mettere in discussione l’onnipotenza di Dio, così come tante volte l’abbiamo intesa. Al riguardo le pagine più serene le ho trovate in Simon Weil. Forse sarebbe utile trovare una buona spiegazione al testo di S. Paolo, Romani 8, 19-22, dove anche la creazione attende di essere liberata dalla schiavitù della corruzione. È vero, più la scienza conosce la complessità della natura, più è difficile pensare come Dio avrebbe potuto far andare bene le cose senza che ci fossero sofferenze o malattie provocate dalla natura nel suo ciclo biologico. Anche perché, se non si fa chiarezza, ci tocca leggere, testualmente, in Galimberti che “meta che la religione cristiana ha indicato è: liberare la terra dal male, che per il cristiano non è evento di natura, ma effetto di una colpa che chiede redenzione” (“Orme del sacro”) . Ma il punto è proprio questo: le leggi di natura che provocano malattia o sofferenza sono sempre frutto di una colpa? Per lo meno servirebbero alcune distinzioni.

Don Pierangelo
A me aiuta molto pensare che il nulla è effettivamente e perfettamente impossibile e, dunque, dal nulla non viene niente. Questo è il significato della creazione di Dio: dove c’è il nulla non fioriscono le cose. Ma Dio cercando nel suo sottanone – pensa ai prevostoni di una volta – tira fuori delle cose, che sono lì a disposizione da sempre. Sono veramente convinto che anche il più fragile dei miei pensieri non va a finire nel nulla.
Allora onnipotenza non è poter fare e annullare le cose a piacimento, ma, piuttosto, è questo grembo in cui le cose cambiano costellazione. Tutto quello che succede è una possibilità che viene non dal nulla ma dal grembo di Dio. Ed è impossibile che non sia così, altrimenti non ci sarebbero mondi, creature, creazioni. La finitezza dell’essere non è solo caducità: è anche il modo concreto in cui noi viviamo e esistiamo. Pertanto un Dio che voglia destinarsi degli interlocutori per un’eternità non ha altra possibilità che quella di farli crescere come fili d’erba sotto questo enorme sottanone.
Dio non può replicarsi perché in Lui sono già date tutte le possibilità. E infinitezza vuol dire questo: tutte le possibilità, anche quelle più trucide, sono già contenute in Dio, perché altrimenti non sarebbero potute venire al mondo. L’onnipotenza di Dio è un volere le cose come lui le vuole; e alla eticità del suo fare io mi abbandono. Questa, alla radice, è il cuore della religione. Credere che Dio esista, è cosa da poco, una roba per principianti. Abbandonarsi alla sua eticità è un’altra cosa. Ed è difficile. La mia garanzia quale è? Se ho motivo di pensare che Dio mi vuole bene, credo anche che nel suo sottanone ha la stoffa per il riscatto dell’impossibile, dove rimangono conservati anche i respiri del bambino Inca morto perché, al tempo, non c’erano gli antibiotici. Questo è il senso preciso di Romani 8,19. Persino Cartesio, che inaugura la modernità con un pensiero su Dio, sente il bisogno di presupporre che “Dio naturalmente non ci inganna e non ci può ingannare”.
C’è ancora un argomento che per me è buono. Nel riconoscere un mio figlio nato malato, io gli voglio bene. Non ce n’è per nessuno! Può essere piccolo e storpio ma io so di volergli bene. E Dio no? Da qualche parte, il prato dei fili d’erba ha fruttato anche questa cosa: la mia capacità di mettermi di traverso, di gridargli che la malattia di questo innocente non doveva succedere. Però solo l’idea che qualcuno possa mettersi di traverso, mi fa intuire che anche questa possibilità è nel mio cuore perché Dio ce l’ha messa.
Il nulla non è un buco dove possono andare a morire le cose. Il messaggio della creazione, nato all’epoca dell’esodo, ribalta l’idea che l’intero mondo sia perduto, che si sia schiavi degli egiziani e tutto sia proprietà del faraone. No, tutto il mondo è nelle mani di Dio compresi i granelli di sabbia! Neanche il granello di sabbia va a finire in niente. E’ questo che mi aiuta nei momenti difficili, che mi consente di credere quando penso che il conto non è chiuso e, magari, lo dico anche a Dio.

Don Roberto
Quando dovevo parlare della mia malattia a mia mamma (è morta qualche anno fa, a ottantasette anni) ho sempre avuto questa sgradevole sensazione (forse solo una mia proiezione): se il Signore ti ha mandato questa malattia, qualcosa di sbagliato e di grosso hai fatto sicuramente. Altrimenti – sottinteso – ti avrebbe benedetto con una vita lunga e carica di anni. Un po’ come la storia di Giobbe. Eppure credo sia un testo che mette a nudo alcune ipocrisie e legittima il grido verso Dio…

Don Pierangelo Sequeri
Sì, certamente. E’ un libro che mi incoraggia nella mia resistenza a credere che tutto il mondo è nelle mani di Dio, compresi i granelli di sabbia. Ma, insieme, è un libro che mi consente di pensare che quando il conto non è chiuso lo devo gridare, anche a Dio stesso. In fondo, Giobbe senza sapere ancora bene il perché, a partire dalla sua concreta esperienza, segue questa intuizione, convinto che al di sotto di una certa soglia di eticità rischia di essere una controfigura, non un uomo. E’ come se Giobbe dicesse a Dio: “Non solo mi rifiuto di pensare che sei come ti rappresentano, ostaggio dell’idea degli amici, ma quando arriverai sarai severo con quanti intendono ridurti dentro quello schema… Non sono giusto e mai come adesso, in cui le cose che mi dicevo prima non valgono più, mi sento debole e in scacco ad un dolore grande. Eppure non posso incolparti ma sappi che griderò finchè avrò fiato in gola”. Giobbe nel suo esame di coscienza chiede che nessuno – che sia Dio, un prete o gli amici – si approfitti della sua debolezza: se qualcuno lo fa, è disonesto. E gli riesce perfino di chiedere a Dio di rendere conto di quanto gli capita. Il conto è aperto, che si sia moralmente perfetti oppure no. In fondo, la decisione a riguardo del come il divino attraversa il tragico dell’uomo rimane indubbiamente il più serio fra tutti i temi cruciali posti alla religione dalla distretta umana.