San Gregorio Barbarigo, il più grande vescovo italiano del Seicento

Gregorio Barbarigo nacque a Venezia nel 1625, primogenito di Gianfrancesco (1600-1687) e di Lucrezia Lion. Rimasto orfano della madre, morta di parto nel 1631, viene educato ad un’intensa vita religiosa dal padre, col quale conservò uno stretto rapporto per tutta la vita. Appartenente ad una famiglia del patriziato veneto, il giovane Gregorio era destinato alla carriera politica. Nel 1643 fu al seguito di Alvise Priuli, rappresentante di Venezia alle trattative di Münster alla fine della guerra dei Trent’anni (1618-1648). Vi rimase per cinque anni, dal 1643 al 1648, che gli permisero, tra l’altro, di avvicinare personaggi importanti tra cui il nunzio papale Fabio Chigi. Questi, divenuto la sua guida spirituale, lo indirizzò alla vita religiosa. Poco dopo il suo rientro in patria, il Barbarigo rinunciò alla carriera politica, iscrivendosi all’università di Padova, dove studiò teologia e si laureò in diritto canonico e civile. Dopo l’ordinazione sacerdotale nel dicembre del 1655, raggiunse Roma chiamato dal Chigi, nel frattempo eletto papa col nome di Alessandro VII. Iniziò la carriera di prelato assolvendo scrupolosamente vari incarichi, tra cui il più gravoso fu quello di responsabile della sanità in Trastevere durante la peste del 1656-1657. Assolto con intelligenza e coraggio il delicato incarico, nell’aprile del 1657 fu eletto vescovo di Bergamo. Durante il breve episcopato bergamasco, elesse a modello episcopale S. Carlo Borromeo, non ricalcato pedissequamente, ma aggiornato alla luce delle nuove esigenze. Compì una rigorosa visita pastorale, raggiungendo anche i luoghi più remoti e di difficile accesso, per avere un quadro reale della situazione. Lo sforzo principale fu indirizzato alla formazione del clero, tramite il rinnovamento disciplinare e culturale del Seminario, che venne ampliato per ospitare un maggior numero di alunni. Riorganizzò la struttura della diocesi con un maggior coordinamento tra periferia e centro tramite il rilancio delle vicarie e con la proposta al clero in cura d’anime di un’azione pastorale più adeguata alle richieste della popolazione. Un settore privilegiato fu rappresentato dalla catechesi. La sua nomina a cardinale nel 1660 fu preludio alla nomina alla più impegnativa sede di Padova nel 1664. Qui rimase per più di un trentennio fino alla morte, proseguendo gli indirizzi già sperimentati a Bergamo e portandoli ad un più alto grado di sviluppo. Anche a Padova al culmine delle sue preoccupazioni vi fu la formazione del clero. Barbarigo costruì un grande seminario diocesano, rinnovò la disciplina e l’ordinamento degli studi, con l’introduzione di nuove materie, anche di carattere scientifico, cui il vescovo era particolarmente sensibile. A testimonianza di questa  preoccupazione culturale, dotò il nuovo Seminario di un moderno osservatorio astronomico, il primo in Italia. Egli era appassionato di matematica ed astronomia, materie coltivate fin dalla gioventù; si era procurato un cannocchiale per scrutare il cielo. Quando fu eletto vescovo di Bergamo, volle come segretario e cancelliere della Curia Cosimo Galilei (1636-1672), figlio di Vincenzo, che a sua volta era figlio del grande Galileo Galilei (1564-1672). Barbarigo lo scelse perchè lo aggiornasse sulle questioni astronomiche. Ma dopo qualche anno, Cosimo decise di entrare nei Preti della Missione di S. Vincenzo dè Paoli, lasciando i suoi libri al Barbarigo, tra cui alcuni appartenuti al nonno, compresa una copia del “Dialogo sopra i massimi sistemi”, con annotazioni a margine dello stesso Galileo. Questa preziosa copia fu portata dal Barbarigo a Padova, ove attualmente si conserva nella biblioteca del Seminario. Nello sforzo di una moderna diffusione della cultura cristiana predispose una moderna tipografia, che svolse un’importante attività editoriale; ad essa si deve fra l’altro la prima edizione in italiano del Corano. Un clero colto era la necessaria premessa per un’istruzione più adeguata per il popolo . La diocesi venne riorganizzata attraverso il rilancio della struttura vicariale, allo scopo di assicurare il controllo episcopale del clero, ma soprattutto di fornire stimoli ed indicazioni pastorali nuove. Sicuramente Gregorio Barbarigo ebbe un posto di primo piano nel quadro degli episcopati italiani del secondo Seicento, rispetto ai quali, vuoi per la concezione non meramente giuridica ma teologica dell’episcopato, vuoi per l’intensa e intelligente opera in concreto attuata, risalta come il più consapevole e precoce interprete di quelle istanze riformatrici che si affermarono nell’ultimo quarto del secolo XVII, a partire dal pontificato di Innocenzo XI, segnato dalla cosiddetta “svolta innocenziana”. Un disegno “illuminato” può essere definito quello del vescovo Barbarigo, tale comunque da far misurare tutta la distanza che intercorre fra la prima stagione controriformistica a ridosso del concilio di Trento e questa stagione del secondo Seicento, pur tutta protesa a recuperare e ad applicare il Tridentino, ma insieme pervasa da uno spirito nuovo e segnata da un progetto riformatore che si apre a prospettive diverse, ormai in direzione del superamento stesso della Controriforma.  Per molti prelati italiani, a cominciare dal vescovo di Amelia mons. Crispino (1690-1721) e da papa Benedetto XIII (1724-1730) che avviò la causa di beatificazione, egli divenne un imprescindibile punto di riferimento..

Più nota è l’ammirazione di Roncalli per Carlo Borromeo, culminato nella pubblicazione degli Atti della Visita Apostolica di S. Carlo a Bergamo nel 1575, ma un interesse non minore fu riservato alla figura di Barbarigo. Egli lucidamente intuì che il volto assunto nella modernità dalla Chiesa di Bergamo si doveva al ruolo giocato da questo vescovo veneziano, la cui opera fu continuata dai successori, a cominciare da mons. Daniele Giustiniani (1664-1697). La storiografia recente ha dato ampia ragione alle intuizioni storiche di Roncalli.  Le celebrazioni del III cinquantenario della beatificazione (1761-1911) del Barbarigo offrirono l’occasione per solenni commemorazioni. Il maggior apporto offerto nell’occasione da Roncalli furono le note storiche sui vari aspetti richiamati da mons. Radini nel discorso tenuto nel Duomo di Padova il 14 giugno 1911. Successivamente a Roncalli, impegnato per l’edizione degli Atti della Visita Apostolica di S. Carlo, mancò il tempo di completare i risultati di questa prima ricerca. Il suo interesse si rinnovò durante il papato. Il 26 maggio 1960 Giovanni XXIII procedette alla canonizzazione «equipollente» del Barbarigo, concludendo motu proprio il processo aperto da Pio X nel 1912. Pochi mesi dopo propose a mons. Piazzi, vescovo di Bergamo, e a don Luigi Chiodi, direttore della Biblioteca Civica, di avviare un’edizione della visita pastorale alla diocesi compiuta dal Barbarigo, analogamente a quanto egli aveva fatto con S. Carlo, impegnandosi a seguire i lavori e a finanziare l’opera. Purtroppo la sua scomparsa arrestò un lavoro ancora agli inizi.