“Diaconi: che fare?”, monsignor Dario Vitali nel suo libro indaga le prerogative della figura del «diacono»

Indagare le prerogative della figura del «diacono» potrebbe sembrare un esercizio un po’ astratto, lontano dal comune sentire del popolo cristiano. Però, dal momento che la Chiesa cattolica si presenta come un’«istituzione organica», è probabile che a modi diversi di intendere (o di fraintendere) il diaconato corrispondano differenti visioni dell’intera esperienza ecclesiale.

Ha per titolo Diaconi: che fare? (San Paolo, pp. 208, 20 euro, ebook a 13,99 euro) un recente libro di monsignor Dario Vitali, nato a Edolo nel 1956, docente di Ecclesiologia alla Pontificia Università Gregoriana di Roma: «La domanda, che dà il titolo al volume – scrive l’autore nelle pagine introduttive -, non ha niente di provocatorio. Semmai, è un segnale di disagio, quasi di frustrazione davanti agli esiti di una scelta conciliare che prometteva ben altri risultati. Ripristinato dal Vaticano II come “grado proprio e permanente della gerarchia ecclesiastica” (Lumen Gentium 29), il diaconato ha vissuto in questo periodo una vicenda complessa e di non facile decodifica».

Professore, senza voler mancare di rispetto a nessuno: si direbbe che nella percezione diffusa quella del diacono sia ancora una figura vaga, una sorta di “vice-prete”.

«È appunto una figura incompiuta, collocata in una prospettiva che, alla lunga, non può portare alcun vantaggio alla Chiesa. Di fatto, il diacono è relegato in un ambito liturgico, con funzioni di supplenza del prete, in quanto quest’ultimo non arriva a far tutto: il diacono può allora – tra le altre cose – amministrare solennemente il battesimo, custodire e distribuire l’Eucaristia, portare il viatico ai moribondi, presiedere al rito dei funerali e della sepoltura».

Nel suo libro, lei si sofferma sulle ricorrenze nel Nuovo Testamento delle parole greche diákonos (“servitore”), diakonéō (“servire”) e diakonía (“ministero”): la sua conclusione è che, in un’epoca in cui i ruoli istituzionali all’interno della Chiesa erano ancora “fluidi”, il concetto di diakonía andava a coprire funzioni e attività di diverso tipo.

«Accostandosi al Nuovo Testamento occorre prudenza, poiché molte ricostruzioni hanno necessariamente un carattere congetturale. Però si può fondatamente ritenere che i tre termini da lei citati rimandassero originariamente alla stessa autocoscienza di Gesù, che affermava di non essere venuto “per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). In questo senso, i diversi ministeri entro la Chiesa primitiva venivano pensati come un prolungamento dell’azione di servizio compiuta da Gesù».

Nel Cinquecento, con il Concilio di Trento, il diaconato diviene una realtà transitoria: è conferito unicamente ai candidati al sacerdozio, come tappa di un percorso che dovrebbe infine portarli a celebrare il sacrificio della Messa.

«In realtà, l’offuscamento delle peculiarità del diaconato era in corso da tempo, come inevitabile conseguenza di una concentrazione delle funzioni nella figura del prete. Al diacono rimaneva – come si è detto – un ruolo di supporto liturgico».

Attraverso una discussione a tratti aspra, il Concilio Vaticano II non è comunque giunto a riaffermare il carattere sacramentale e l’“autonomia” del diaconato?

«Il tema era entrato nell’aula conciliare con una richiesta dei vescovi dei Paesi “terra di missione”: essi chiedevano di poter ricorrere ai diaconi per sopperire alle necessità delle comunità cristiane, stante l’esiguo numero di preti in quei Paesi (un po’ come, recentemente, è stata formulata la proposta dei “viri probati”, uomini sposati di una certa età a cui potrebbe essere conferita l’ordinazione sacerdotale). Durante il Concilio, però, la discussione sul diaconato cambiò di registro: dalle considerazioni sull’utilità dei diaconi si passò a una riflessione approfondita sul loro ruolo peculiare nella vita della Chiesa. Il cardinale Döpfner, insieme ad altri, riportò l’attenzione sul principio per cui la tripartizione della gerarchia in episcopato, presbiterato e diaconato è di diritto divino, inerente alla costituzione essenziale della Chiesa. La riscoperta del diaconato permanente come ordine proprio rimandava a una visione della Chiesa prevalente nel primo millennio della storia cristiana».

Paolo VI non sosteneva che i candidati al diaconato dovessero ricevere una formazione specifica e approfondita, dal punto di vista teologico- pastorale?

«Una formazione di questo tipo era prevista soprattutto per i diaconi celibi; per quelli sposati, si pensava che il compito di prepararli potesse essere espletato – in modo meno formale – da persone di buona reputazione all’interno della Chiesa. In effetti si sono poi anche organizzati dei corsi preparatori al conferimento del diaconato; il problema è che questa formazione è sempre stata pensata a partire da quella per il ministero presbiterale».

Quali dovrebbero essere, allora, le autentiche funzioni di un diacono, affinché la sua figura non tenda a confondersi con altre?

«La mia tesi è molto semplice: il diaconato dovrebbe costituire un’opportunità per la Chiesa, non un problema. In questi anni, il numero dei diaconi è cresciuto di

molto, ma essi hanno poi finito per occupare lo spazio del presbiterio, senza trovare una fisionomia propria. In pass

ato, invece, un diacono affiancava il vescovo, come espressione concreta del legame del ministero episcopale con le dimensioni della comunità, della carità e del servizio. La riscoperta del senso autentico del diaconato va di pari passo con quella del carattere della Chiesa locale: nel momento in cui si torna a parlare di una “Chiesa di Chiese”, ecco che – a livello diocesano – il primo responsabile dell’esercizio della carità è il vescovo. Quest’ultimo può scegliersi dei collaboratori che lo aiutino a far fronte alle situazioni di bisogno e alle esigenze particolari del popolo di Dio: penso – a puro titolo di esempio – all’ambito della pastorale del lavoro, o alla cura dei poveri».

Un’ultima domanda: sotto il pontificato di Francesco, si è riaperto un dibattito sulla liceità di conferire il diaconato alle donne. Ci sono davvero delle difficoltà al riguardo?

«Direi proprio di no. Nei primi secoli, accanto all’ordinazione ad sacerdotium vi era anche un’ordinazione ad ministerium episcopi, espressione diretta dell’azione di governo della Chiesa da parte del vescovo. La funzione del diacono – a sostegno di tale azione – richiederebbe delle precise competenze; e queste non hanno sesso, possono essere possedute sia da uomini, sia da donne. La vera questione è un’altra: seguendo la logica del ragionamento che abbiamo condotto, i diaconi, oltre che assai preparati, dovrebbero essere relativamente pochi. Oggi, invece, si sta procedendo in direzione opposta: si è tentati di riempire con loro i vuoti legati al calo delle vocazioni sacerdotali».