Quali preti per la Chiesa, quali seminari. Un punto di vista laico

Il nostro collaboratore Giovanni Cominelli,
laico ma buon conoscitore del mondo cattolico,
esprime il suo punto di vista su come dovrebbero essere formati i sacerdoti. È un punto di vista discutibile
ma che aiuta, ci sembra, ad approfondire un tema
che sta molto a cuore ai credenti di oggi.

Il clero è la spina dorsale della presenza della Chiesa nel mondo. La sua tenuta decide dell’esistenza della Chiesa. Pertanto, a chi interessa il suo destino, interessa anche la discussione sulla formazione dei nuovi sacerdoti e sul ruolo dei Seminari.  E così mi sento giustificato per uscire dal seminato…

L’istituzione dei seminari, il “modello tridentino”, la sua crisi

Del resto, che la questione del clero sia decisiva per la Chiesa, lo aveva già fatto notare il grande storico della Riforma, protestante e cattolica, Hubert Jedin, quando scrisse, parlando della Riforma protestante: “La crisi dello scisma è stata in ultima analisi la crisi della formazione sacerdotale”.

E questo spiega perché nella XXIII sessione del 15 luglio 1563 – Canone 18 del Decreto di riformai Vescovi riuniti nel Concilio di Trento approvarono all’unanimità il decreto “Cum adolescentium aetas”, che raccomandava l’erezione dei Seminari in ogni diocesi. La decisione di imporre alle Diocesi l’apertura del Seminario era fondata su considerazioni teologiche e pedagogiche. I ragazzi dovevano essere avviati per tempo allo stato clericale, “prima che le cattive abitudini si impadroniscano completamente dell’uomo”. Dovevano essere ammessi “i ragazzi di almeno dodici anni, nati da legittimo matrimonio, sufficientemente capaci di leggere e di scrivere e la cui indole e volontà faccia sperare della loro perpetua fedeltà ai ministeri ecclesiastici.

Erano giustamente convinti che la Riforma cattolica – che gli storici hanno definito polemicamente Controriforma – sarebbe stata possibile solo se fosse stata incardinata sui vescovi e sui sacerdoti. Le questioni aperte su questo fronte erano molteplici e urgenti: se i Vescovi assai spesso non risiedevano nelle Diocesi di cui erano titolari e non si curavano, pertanto, della cura del gregge, soprattutto per quanto riguardava la predicazione della parola e il catechismo, molti preti vivevano in concubinato e sperperavano rendite e benefici ecclesiastici a favore dello loro famiglie clandestine; la moralità, la spiritualità, la cultura dei chierici stavano ai minimi termini.

Lutero aveva denunciato che presso la Cattedrale di Colonia – dove oggi c’è una Roncalli Platz  – erano in servizio circa cinquemila preti, che sbarcavano il lunario spesso nei modi più fantasiosi e scandalosi possibili. La storia del Concilio tridentino ci informa che nella IV sessione i padri tridentini avevano discusso dell’obbligo per i parroci di predicare almeno nelle domeniche e nei giorni di festa, stante la pressoché totale disattenzione per la predicazione, spesso delegata agli Ordini religiosi, e per la catechesi.

Il modello tridentino sistematizzava esperienze precedenti. In primo luogo, quella del Collegio Capranica, inaugurato a Roma tra il 1475 e il 1476 dal cardinale Angelo Capranica. Accoglieva i giovani poveri, di età compresa tra i 15 e i 35 anni, che intendevano accedere alla vita ecclesiastica e provvedeva alla loro istruzione in Diritto canonico e Teologia e alla loro formazione spirituale e disciplinare, sotto la guida di un Rettore – scelto tra gli alunni dagli alunni stessi – coadiuvato da quattro consiglieri. Vi hanno studiato Vescovi e papi, ultimo Pio XII. Ma, soprattutto, pesò il modello gesuitico. Ignazio da Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, aveva istituito a Roma due Collegi: il Collegio Romano nel 1551 e il Collegio Germanico nel 1552. Il primo si presentava come “Scuola di Grammatica, di Humanità e di Doctrina Christiana; il secondo nasceva per formare il clero tedesco, più esposto alla Riforma protestante. Veniva introdotta la figura del Padre spirituale. Insomma: collegi di addestramento “militare-militante”.

La sistemazione teorica finale della questione dei seminari e persino il nome “Seminario” si deve, tuttavia, al Sinodo nazionale inglese, convocato nel 1555 dal Card. Reginald Pole “Pro reformationeAngliae”.

Il modello tridentino ha funzionato fino agli anni ’50 del ‘900.

Le cause della sua crisi si dispongono a cerchi concentrici. Il nucleo è costituito, ovviamente, dalprocesso di secolarizzazione e di scristianizzazione. Più all’esterno, dal mutamento antropologico di costumi e stili di vita dei giovani, già a partire daglianni ’60 ecc… ecc… E certamente dalle trasformazioni sociali. Le vocazioni sono diminuite di molto. Il prete ha cessato di essere una figura sociale modello.

Ma, supponiamo che uno avverta o creda di avvertire la chiamata al sacerdozio, la formazione separata dei futuri preti in Seminario non pare più funzionare. Il modello-Seminario quale vivaio della Chiesa è inaridito. Perché è diventato inutile e talora dannoso per lo sviluppo della vocazione.

Il Seminario e i suoi limiti

A monte di tutta la faccenda sta la domanda: quale prete occorre oggi? Se serve una persona capace della Parola – cioè dotata di una buona cultura generale, di conoscenza storia del Cristianesimo, di Storia della Chiesa, del pensiero teologico, dell’esegesi e della teologia biblica – allora il Seminario è inutile: bastano le Istituzioni scolastiche e le Facoltà di teologia, da frequentare come le Università.

Se occorre una persona psichicamente, affettivamente ed emotivamente equilibrata, allora il Seminario non è il posto giusto per costruire una tale personalità. Per due ragioni. La prima è che si tratta di un ambiente artificiale, separato, confinato rispetto ai luoghi educativi reali, tra cui primariamente la famiglia, la rete delle amicizie, la vita relazionale reale. Il Seminario non può essere un convento. La seconda riguarda la questione del celibato, cioè a dire dell’educazione dell’affettività e della sessualità. La sessualità è una componente strutturale della condizione umana; il suo esercizio si può sospendere, sublimare, rinviare, rifiutare per una motivazione più grande. Ma per arrivare a a questa condizione, occorre una grande capacità di equilibrio psichico generale.

Per la maggioranza delle persone la rinuncia, quand’anche volontariamente praticata, produce distorsioni affettive, anaffettività, squilibri, solitudini insopportabili. Perciò dovrebbe essere una scelta libera e reversibile. Insomma: si può essere sacerdoti e vescovi con famiglia, come molte altre esperienze protestanti e ortodosse documentano.

L’alternativa al Seminario: la parrocchia

C’è un’alternativa al Seminario? Sì, la Parrocchia, in quanto comunità di fedeli, dentro la quale possono emergere e crescere vocazioni, si possono verificare tendenze, comportamenti, abilità vocazionali. A fare il prete non si impara in Seminario, ma dentro la comunità dei credenti. E’ una forma di apprendistato. Solo la comunità, guidata da un presbitero, coadiuvato da laici responsabili, può verificare ogni giorno la capacità di un giovane di testimoniare, di annunciare la Parola, di amare il prossimo e, in seguito, di candidarsi a leader di servizio alla comuni. Certo, con l’integrazione delle competenze cognitive che solo le Università e le Facoltà teologiche – disgraziatamente separate in Italia – possono fornire. La comunità dei credenti resta il committente. Giacchè il prete non è un teologo, ma un testimone della Parola. Esattamente come alle origini, quando i cristiani erano minoranze disperse tra l’Asia e il Mediterraneo.

So bene che, sollevando la questione del celibato e, a maggior ragione, del Sacerdozio femminile, si va a urtare immediatamente contro la Tradizione. Ma la Tradizione non può essere una prigione o un alibi. Il Cristianesimo si è sviluppato per audaci innovazioni successive. Il Concilio di Trento ne ha prodotte di sue, quella dei Seminari tra le prime. E la Tradizione è il deposito di queste innovazioni. Se diventa una zavorra, il mondo andrà per suo conto, senza aspettare la Chiesa.