Dopo l’assassinio del carabiniere a Roma. Di che colore è il male?

Da troppo tempo sta accadendo che di fronte a un fatto delittuoso una delle prime domande che si aprono nell’opinione pubblica, riguarda il colore della pelle dell’autore del crimine. Dalla risposta nascono immediatamente dichiarazioni, giudizi, allarmi, denunce. Così è accaduto anche di fronte al brutale omicidio, avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 luglio, del carabiniere Mario Cercellio Renga.
Non si tratta qui di soffermarsi sulle polemiche e sugli scivoloni di dichiarazioni e giudizi affrettati. Quello della frettolosità è un capitolo che esige di essere considerato a parte. Ora si tratta di soffermarsi su un rischio di indebolimento della coscienza di fronte al colore che si vorrebbe assegnare al male.
C’è qualcosa di estremamente pericoloso in questo tentativo e riguarda quello schierarsi da una parte o dall’altra quasi augurandosi che, in base al proprio sentire, il colpevole sia un italiano e non un immigrato oppure che sia un immigrato e non un italiano.
Si vorrebbe dare un colore al male.
È un esercizio che mai può essere giustificato, mai può essere compiuto da chi ha onestà intellettuale. Neppure può essere consentito a chi riveste ruoli pubblici che, come tali, hanno anche una valenza educativa.
Come, a seconda di diverse convinzioni, si può essere sollevati nell’apprendere che il criminale fermato è un extracomunitario oppure che è un italiano? Come possono dire l’ultima parola sul male le graduatorie che assegnano il primato del crimine all’extracomunitario?
Questo triste esercizio sta da tempo plasmando un’opinione pubblica continuamente sottoposta a strattoni non solo mediatici.
È possibile riportare la lotta contro il male e non contro il colore del male?
Potrebbe sembrare, questa domanda, fuori luogo ma basta frequentare le piazze digitali per rendersi conto che non lo è affatto. Ci si trova spesso in un inquietante schierarsi piuttosto che in un responsabile confronto.
Riaffiora la grande questione del risveglio della coscienza, si pone la grande questione dell’uscita del pensiero da un’ubriacatura di sentenze sommarie e di rassicuranti parole d’ordine.
Nella morte, ancor più nella vita, di un carabiniere come Mario Cercellio Rega, un giovane che ha sempre avuto nel cuore la tutela e la difesa dei più deboli e diversi, non viene forse un appello a non cadere nella trappola tesa da chi parte dal colore della pelle per definire l’origine del male? Da un uomo che ha pagato con la vita il suo amore per l’altro non viene forse l’appello a liberare la coscienza dall’oppressione del pregiudizio, perché, possa avere conoscenza delle cause e delle dinamiche del male? Per prevenirle, per contrastarle, per fermarle.Paolo Bustaffa