Il mistero luminoso della Trasfigurazione. I monaci e “gli altri”

Devo avere letto da qualche parte che una certa tradizione monastica valorizza parecchio il mistero della trasfigurazione. È vero? E se è vero, perché? In ogni caso, che cosa vi è, secondo te, di importante in questo racconto evangelico? Gianna

È profondamente vero quello che scrivi, cara Gianna: l’episodio evangelico della Trasfigurazione è particolarmente caro ai monaci d’oriente e d’occidente. Nell’esortazione postsinodale “Vita Consecrata”, san Giovanni Paolo II scrive: “A questa «icona» si riferisce tutta un’antica tradizione spirituale, quando collega la vita contemplativa all’orazione di Gesù «sul monte»” (VC I,14).

Trasfigurazione e contemplazione

Perché questa connessione? Perché in questo brano è racchiuso tutto il cammino spirituale che il monaco e la monaca percorrono giorno dopo giorno: come i tre discepoli, anch’essi sono presi e portati da Gesù sul monte, in disparte, per contemplare il mistero della sua Gloria.

Come Pietro, Giacomo e Giovanni anch’essi non sanno descrivere questa loro esperienza di fede. Eppure credono in Gesù, fanno esperienza di lui, addirittura ne percepiscono, anche se soltanto a tratti, la sua gloria; con le loro capacità, ma anche con le loro ottiche diverse, sempre però incapaci di narrare l’inenarrabile” (E. Bianchi).

Il brano evangelico della Trasfigurazione è ricco di immagini evocative, sia in riferimento alla vita monastica che, più in generale, alla vita cristiana.

Innanzitutto è un evento di grazia e di gloria che prepara i discepoli allo scandalo della passione e morte del Figlio di Dio, quando su un altro monte, il Golgota, prevarranno le tenebre e l’umiliazione totale. Come per contrasto, la luce e la gloria del Tabor aiuteranno i discepoli a reggere l’urto del Golgota.

Svelamento del mistero suo e nostro

Il Cristo si trasfigura divenendo tanto luminoso da rivelare la sua divinità e da trasfigurare anche noi, suoi discepoli, corpo, anima e spirito. Alla luce della sua Gloria, infatti, anche le nostre debolezze e le nostre fragilità cessano di essere pietre d’inciampo e diventano luoghi di salvezza. Persino le contraddizioni, le pauree le oscurità del nostro cuore vengono rischiarate e illuminate.

Il nostro sguardo verso il Cristo trasfigurato permette che nella nostra vita il cielo e la terra si uniscano (Frère Alois, priore di Taizé).

Reso splendente dalla Gloria del Padre, Gesù introduce i suoi nel mistero della sua intimità con il Padre che lo confessa Figlio amato: “Questi è il mio Figlio, l’amato: ascoltatelo!”. D’ora poi il discepolo saprà bene dove orientare il suo orecchio e non cercherà altro che la voce e la Parola del suo Maestro. Come un ascoltatore attento, desideroso di imparare, di sperimentare, di conoscere, fisserà il proprio cuore nel Cristo amato, cercato, testimoniato sopra ogni cosa e in ogni occasione opportuna e inopportuna! Nel Figlio prediletto, anch’egli si riconoscerà figlio amato, prediletto nel quale il Padre ama compiacersi. Questa sarà tutta la sua gioia!

Sul Tabor gli occhi dei discepoli si chiudono

Ma, ahimè, gli occhi si chiudono. L’evangelista Luca evidenzia che i tre discepoli erano oppressi dal sonno. Difficile reggere la grandezza della Divinità e della Figliolanza di Cristo senza lasciarsi prendere dal “sonno!”. Sul Tabor, però, i discepoli imparano a vegliare, a vigilare: “Perseverare nella vita monastica – scrive il priore di Taizè, – suppone di perseverare in un’attesa contemplativa: stare lì, semplicemente, gratuitamente”.

Neppure questo è scontato. La nube descritta dagli evangelisti che ricopre, con la sua ombra, Pietro, Giacomo e Giovanni può incutere paura e appesantire gli occhi del cuore e della mente. Rimanere svegli, allora è il compito primario e a volte arduo sia per coloro che nella Chiesa sono chiamati a questa vocazione, che per ogni battezzato impegnato a vivere con passione e radicalità la propria fede.

Enzo Bianchi lo indica chiaramente:

Questa condizione, noi monaci la conosciamo bene, anche se poi non siamo capaci di vivere pienamente questo amore per il Signore, questa fede nel Signore, e finiamo per contraddirli e smentirli: questa condizione è la vigilanza, è la veglia, è il restare svegli, e non solo dal sonno che a volte per la fatica può appesantire i nostri occhi, ma il restare svegli spiritualmente, il restare attenti, vigilanti,

proprio come una sentinella chiamata a scrutare all’orizzonte l’arrivo dello Sposo.

”A valle” del monte: lasciar trasparire la gloria

Al termine di ogni esperienza di grazia anche noi esclamiamo: “Signore, è bello per noi stare qui!”. Ma il Signore ricorda che la nostra missione, quella di ogni battezzato e persino di ogni monaco, è a valle, là dove ogni uomo e ogni donna affrontano la sfida della vita, spesso dolorosa e incomprensibile. Proprio qui, in mezzo ai nostri fratelli, i nostri occhi, il nostro sguardo, l’intera nostra esistenza devono lasciar trasparire quanto abbiamo vissuto, la Gloria stessa di Dio, contemplata gratuitamente con stupore e tanto, tanto timore.