Un mare di plastica: i dispositivi per rilevare l’inquinamento restano impigliati

Tanta plastica, anzi, un “mare di plastica”… in senso letterale! La sconsideratezza umana, infatti, sta riuscendo a compiere anche questo tipo di scempio ambientale. Purtroppo, che negli ultimi decenni la plastica che inquina gli oceani sia aumentata enormemente è un fatto inconfutabile, che gli scienziati hanno ora provato, analizzando 60 anni di libri di bordo delle navi di monitoraggio del plancton. Lo studio (pubblicato su “Nature Communications”) ha preso in esame i dati raccolti da particolari strumenti, detti registratori continui di plancton (Rcp), trascinati dalle navi in tutto l’Oceano Atlantico, per un tragitto globale di milioni di chilometri. Ebbene, i numeri impietosi attestano che, dall’anno 2000, grossi oggetti di plastica (come buste e reti da pesca) sono rimasti impigliati circa tre volte più spesso di quanto non accadesse nei decenni precedenti.
Finora, i dati a lungo termine sulla plastica oceanica erano piuttosto scarsi; studi precedenti, infatti, si erano prevalentemente concentrati sul fenomeno dell’ingestione di plastica da parte di organismi marini su scale temporali più brevi.
Dal punto di vista tecnico, i dispositivi detti Rcp, la cui forma è molto simile a quella di un siluro, vengono impiegati fin dal 1931 per esaminare le popolazioni di plancton; la loro funzione è quella di filtrare gli organismi dall’acqua mediante delle fasce di seta. Attualmente, una vera e propria flotta di Rcp viene continuamente trainata attraverso gli oceani nel mondo da traghetti e navi portacontainer “volontari”.
“Negli ultimi anni, purtroppo, sempre più spesso i dispositivi sono tornati dal mare impigliati nella plastica”, afferma Clare Ostle, biogeochimico marino della Marine Biological Association di Plymouth, nel Regno Unito, che sovraintende alla flotta di dispositivi. Una prassi concordata prevede che, ogni volta che una nave traina un Rcp, l’equipaggio compili un diario di bordo, rilevando eventuali problemi con il dispositivo. In questo modo, i ricercatori guidati da Ostle hanno potuto esaminare tutti i diari di traino dell’Atlantico settentrionale tra il 1957 e il 2016, per verificare se gli aggrovigliamenti con la plastica siano diventati più frequenti. I numeri dicono che, nell’arco di 60 anni, sono stati registrati 208 intasamenti simili, compresi alcuni avvenuti negli anni ’50 e ’60. Da allora, però, gli incontri con oggetti di plastica di grandi dimensioni (macroplastiche) sono diventati molto più comuni: un primo aumento si è verificato negli anni ’80 e ’90, raggiungendo poi il picco negli anni 2000 (con Rcp rimasti impigliati in circa il 3% per cento dei rimorchi). La principale causa di questo disastro è senz’altro rappresentata dalle attrezzature da pesca, coinvolte nel 55% di tutti gli aggrovigliamenti. Né è plausibile ipotizzare che l’aumento rilevato possa essere conseguente ad una migliore registrazione degli aggrovigliamenti; infatti, quando gli studiosi hanno analizzato il numero di incontri di RCP con oggetti naturali (come alghe e pesci), non hanno riscontrato cambiamenti significativi nello stesso periodo di tempo.
E’ da sottolineare come questo studio si sia concentrato su oggetti di plastica di grandi dimensioni, senza quindi soffermarsi ad analizzare le quantità di microplastiche (cioè frammenti lunghi meno di 5 millimetri) presenti negli oceani. A differenza delle macroplastiche, questi minuscoli inquinanti provengono da fonti come imballaggi di plastica usa e getta, invece che da attrezzi da pesca. Ad ogni modo, questa ricerca dimostra come le attività di pesca svolgano un ruolo importante nell’inquinamento plastico e possano fornire utili dati di riferimento per verificare se cambiamenti migliorativi nelle tecniche di pesca siano in grado di influire sui livelli di plastica negli oceani.