La morte di Luca e Matteo, il silenzio, il dolore. Non lasciamo vincere la rabbia

Un segno di gesso e un mazzo di fiori: è tutto ciò che rimane, oggi, sul luogo dello scontro in cui sabato notte sono morti tragicamente due ragazzi di Bergamo, Luca Carissimi di 21 e Matteo di 18, ad Azzano San Paolo. Uno scontro che è seguito – secondo le ricostruzioni diffuse fino ad ora – ad una banale lite in discoteca e che ha spezzato – in modo diverso – anche la vita del terzo giovane uomo coinvolto, il trentatrenne Matteo Scapin, che ora deve (com’è giusto) portarne il peso.

Quel segno sbiadirà presto, i fiori appassiranno, ma la traccia di ciò che è accaduto su quel pezzo di asfalto non se ne andrà. Quel luogo diventerà memoria e avviso per tutti. Ci restano il dolore, grandissimo e inconsolabile quello delle famiglie, un silenzio annichilito, e molte domande, di fronte a un dramma che – da qualunque parte lo si guardi – è ancora inspiegabile, assurdo, incomprensibile.

Sono state spese molte parole sull’alcol, sugli stupefacenti, sulla sicurezza alla guida, sugli eccessi, sulle discoteche, tutte considerazioni importanti e corrette, che ci auguriamo non cadano nel vuoto. Tocca agli inquirenti ora fare chiarezza e ristabilire la giustizia. Noi, comunque, conserviamo il desiderio di interrogarci su due termini della questione che indicano, in un orizzonte più ampio, due dimensioni profonde dell’essere umano: la rabbia e il perdono.

In modo molto preciso Robert Ingersoll, leader politico e scrittore americano, definisce la rabbia come “una raffica di vento che spegne la lampada dell’intelligenza”. Un’emozione, un istinto che sta diventando quasi una “cifra caratteristica” della nostra epoca. C’erano una volta i leoni da tastiera, ora sembra che chiunque sia esposto al rischio di diventarlo, se viene contrariato. Le reazioni “sopra le righe”, sui social come dal vivo, nei parcheggi e al supermercato, arrivano anche da persone apparente miti e “insospettabili”, in nome di una presunta e sopravvalutata “libertà di espressione”. Sul rispetto e sul buon senso prevalgono spesso il desiderio di “farsi sentire” o di “farsi giustizia” e c’è alla base una spinta narcisistica che rende sempre molto chiare le proprie ragioni, ma non lascia spazio a quelle degli altri.

Se il clima sociale si accende, gli episodi “estremi” come quello di Azzano si moltiplicano. Stiamo semplificando, il fatto in sé ovviamente è unico e complesso e merita una propria approfondita analisi nelle sedi appropriate. Ma ognuno, in scala ridotta, potrebbe avere qualche aneddoto da raccontare attingendo alla propria esperienza personale.
Noi non crediamo che sia una deriva inevitabile: gli strumenti per produrre un’inversione di tendenza esistono, ma richiedono pazienza, fatica, gentilezza, un lavoro attento di ricucitura delle reti di comunità, il coraggio di non mollare anche se il mondo va in direzione opposta. Si può “disarmare” l’eccesso di rabbia, almeno sul piano collettivo, togliendole nutrimento come si fa con un’erbaccia. Il “bene” in senso lato, tradotto in opere educative, di prevenzione, di comunicazione costruttiva, può essere contagioso quanto il male, e compiere ognuno uno sforzo in più può essere anche un modo per rendere omaggio alla memoria di questi due ragazzi e non lasciare sole le famiglie.

Il perdono: si può pensare che sia “il regalo più bello” come dice Madre Teresa di Calcutta, e rendersi conto che davvero “libera l’anima e rimuove la paura, e per questo diventa un’arma potente”, come sostiene Nelson Mandela. Ci sono cose che è faticosissimo perdonare, e può volerci tutta la vita, anche se vale la pena di impegnarsi a farlo, prima di tutto per riconciliarsi con se stessi. Altre, invece, dovremmo proprio imparare a lasciarle andare: il posto in coda, la precedenza a uno stop, una battuta fuori luogo. Tutte quelle, insomma, che portano ai delitti “per futili motivi”. In fondo incomincia tutto da lì, da una società in cui il perdono (in altre parole, la misericordia, anche nelle piccole cose) è ancora un valore.