L’attesa, assiepati a bordo strada. La testa sporta in avanti ai primi movimenti, rumori, mormorii. Il passo in avanti per vedere meglio, per non perdersi un attimo importante. Il passo indietro, applaudendo emozionati, seguendo col volto il passaggio che è un attimo solo, allungando il collo un po’ più in là per cercare di vedere cosa succede dopo.
La scena dell’arrivo alla chiesa di S.Alessandro Martire di Paladina (Bg) del feretro di Felice Gimondi – morto in Sicilia venerdì scorso a causa di un malore – ha riprodotto il rito – quasi religioso, appunto come il funerale di questa mattina – il passaggio di una corsa ciclistica, il palcoscenico dove Felice da Sedrina si esaltava ed esaltava. I suoi tifosi, i “Gimondiani”, ma in generale tutti quelli che gli hanno voluto bene (tanti, solo a Paladina erano in duemila) lo hanno atteso e applaudito, lo hanno accarezzato, provato a sfiorare, ma se sulle strade di Giro, Tour, Vuelta, Mondiali quelli erano dei tentativi di spingere il loro campione, le mani questa mattina cercavano di tenerlo lì, il campione.
Perché gli sguardi negli occhi di tutti i presenti erano smarriti e dispiaciuti, emblema di chi ha perso un amico troppo presto, troppo improvvisamente, come le sue accelerate in salita, le sue progressioni a cronometro, i suoi sprint in volata. Anche i suoi colleghi erano compatti come in gruppo, ligi al dovere di fargli da gregari, di stare alle sue brontolate, ai suoi ordini, di aprirgli la strada, di proteggerlo, di portarlo fino alla salita finale che, stamattina, era il sagrato della chiesa. E così i suoi avversari che lo hanno guardato da dietro, increduli, allungando lo sguardo in là nel vederlo andarsene, come in corsa, con rabbia per quello che è successo che a quei tempi era rabbia per non riuscire a stargli dietro.
Gianni Motta, Vittorio Adorni, “Gibì” Baronchelli, Marino Basso, Serge Parsani, Giancarlo Ferretti (“Ferron” come lo chiamava Gimondi stesso), Ernesto Colnago i grandi nomi presenti. Postilla per Moser e Saronni, presenti entrambi, simbolo del duello temporalmente successivo a quello di Gimondi-Merckx. La famiglia in prima fila, composta in un dolore dignitoso fino all’ultimo con la moglie Tiziana scortata dalle figlie Federica e Norma. Poi i campioni venuti dopo l’epoca di Felice: Paolo Savoldelli, Ivan Gotti, Davide Cassani, Moreno Argentin, Maurizio Fondriest.
La cerimonia è stata aperta dall’Alleluja di Leonard Cohen interpretata da una sublime Leslie Abbadini che nel corso della cerimonia è stata poi protagonista anche con l’Ave Maria di Schubert. A celebrarla, in apertura, il vicario episcopale Don Davide Pelucchi che ha portato i saluti del Vescovo Mons. Francesco Beschi, impossibilitato ad essere a Paladina oggi. Poi, l’amico di sempre, Don Mansueto Callioni. Il primo ha parlato della “fatica come di una medicina”, quella fatica che usurava e rigenerava Gimondi in corsa e nella vita e che lo ha portato in altissimo. Callioni invece ha ricordato la fede, la bontà, la caparbietà e l’onestà di Gimondi, valori che lo hanno reso vittorioso più di ogni altra maglia gialla, rosa, iridata.
Una cerimonia composta, ma commovente. Semplice, ma profonda. Una cerimonia dei pianti trattenuti e degli applausi che sono usciti spontanei a ripetizione. Un incitamento, un ringraziamento, un saluto, un arrivederci, un modo per rendere omaggio ad un simbolo di un ciclismo d’oro, un emblema di un’epoca passata che ha fatto crescere, maturare, invecchiare milioni di sportivi italiani. Una cerimonia Felice (andata in diretta sulla Rai in maniera ineccepibile e discreta) come felice il volto – in bianco e nero – del campione incorniciato e appoggiato sulla bara dalla moglie Tiziana. Gimondi corridore sciolto in un sorriso sincero, di quelli che spendeva solo al bisogno, ma in grado di restare dentro per sempre.