Allineandomi allo stereotipo dei trentenni d’oggi, dallo scorso inverno ho preso in gestione qualche metro quadro di terra da lavorare. Attività in voga tra chi ambisce a uno stile di vita salubre e bucolico -ancor di più tra chi cerca una valvola di sfogo che gli permetta di evitare la galera per aver ceduto all’istinto di bastonare un cliente-.
Nascendo in provincia e avendo come padre un appassionato di piante e natura di ogni genere, forma e dimensione, l’approccio alla coltivazione è di certo agevolato, se non altro per il fatto di ricordare con una lucidità che sorprende me stesso in primis, le quattro regole fondamentali per far nascere, crescere e fruttare una pianta: terra, acqua, seminare e pazienza.
Se sulla terra e sull’acqua c’è ben poco da dire, se non che entrambe vanno in qualche modo dosate nella giusta miscela secondo le inclinazioni di ogni frutto e ortaggio, e se sulla semina lo dice il proverbio: ‘chi semina raccoglie’, se non semini, cosa tieni l’orto a fare, non ci vuole un genio. Sulla pazienza mi sento obbligato a spendere alcune parole in più.
In parte perché i cambiamenti climatici che rendono possibili le grandinate a marzo, gli alluvioni a luglio e le secche a novembre, danno il loro bel da fare, in parte perché ogni giorno si assiste all’arrivo di qualche nuovo piccolo maledetto insetto asiatico che oltre a prendere dimora sui tuoi amati cavoletti, decide di trapanare i pomodori, estrarne la polpa, schiacciarla con i piedini, farne una salsa e cucinarla per gli amici.
Sotto questa luce l’orto diventa un banco di prova, una verifica del tuo percorso di illuminazione zen. Se resisti a dar fuoco all’intera coltivazione con un lanciafiamme per liberarti di cimici, cavolaie, cocciniglia e zanzare tigre, allora ricevi la cintura nera dell’agricoltore e un pacchetto di figurine Panini del 1990. Se no puoi distruggere tutto per ricavarne un parcheggio asfaltato.
La soddisfazione di servire a tavola un piatto di zucchine, pomodori e cetrioli ‘a metro zero’ resta tuttavia impagabile. Ti fa dimenticare le settecento punture di zanzare tigre sulle caviglie, l’insolazione presa nel tentativo di montare una rete antigrandine, e anche il dolore alla schiena per aver zappato con troppo vigore un angolo sassoso. Ti rende possibile sopportare le ore trascorse a legare i pomodori, a dare un ordine ai fagiolini, a dar spazio alle zucchine che fanno sempre troppe foglie, e alle zucche che quando partono invadono il prato, si arrampicano sull’olivo e lo aggrovigliano. Ti rende piacevole l’acquisto di piantine che verranno mangiate da una lumaca la notte stessa che le hai piantate, quelle che verranno grandinate dall’ennesimo cataclisma fuori stagione, quelle strappate dal vento, rotte da un gatto di passaggio, rosicchiate da un vermetto, beccate dalla gallina in fuga del vicino.
In fondo l’orto, nel suo insieme, è una creatura viva di cui prendersi cura, che si sviluppa e cresce secondo le sue stagioni, esattamente come un uomo che attraversa le fasi della vita finché giunge al momento, maledetto e benedetto al tempo stesso, in cui si chiede davanti allo specchio: e se prendessi un pezzettino di terra, piccolo piccolo, e ci facessi un orto?
A ciascuno la sua risposta. Io ho già dato la mia e, scherzi a parte, le soddisfazioni sono sempre un gradino sopra gli impegni. Qualcuno vuole un cesto di datterini?