Leggo con estremo interesse l’articolo di Chiara, monaca clarissa, sul nostro notiziario, intitolato Il mio curato corre corre. Ma non riesco ad ammirarlo. L’articolo cade a fagiolo per quanto sto vivendo in questi giorni.
Stiamo preparando l’agenda pastorale delle comunità di Grumello del Monte e Telgate; il mio compito è delicato, perché devo predisporre i molti impegni dei due oratori prestando particolare attenzione a non farli sovrapporre e calcolando i tempi perché io possa essere il più presente possibile alle attività di entrambe le comunità.
Il prete ha un peccato da confessare: avere una sera libera
L’articolo ha riacceso in me un flusso di pensieri che mi porto dentro da tempo: vorrei cercare di metterne per iscritto qualcuno, sperando siano comprensibili, perché sono pensieri a 360 gradi e non vorrei creare confusione in chi legge.
Ho l’impressione che nella Chiesa siamo affetti da una sorta di “horror vacui pastorale”; sembra quasi che se nell’agenda settimanale c’è un dopo cena senza riunioni o incontri ci sia da confessarsi per il grave peccato di non aver organizzato qualcosa. L’agenda straborda di incontri formativi, riunioni, consigli, proposte.
Mi sorge una domanda: che senso ha la nostra continua insistenza sull’importanza che in famiglia si stia insieme se siamo noi preti i primi a chiedere ai genitori di uscire di casa la sera, per diverse volte, togliendo così loro l’unico momento, dopo una giornata di lavoro e di corse, in cui potrebbero stare insieme? E per cosa li facciamo uscire? A volte, per quanto ci impegniamo, mi sembra che li sottoponiamo alla tortura dell’ascolto di discorsi teorici che noi per primi sopporteremmo a malapena.
Le giornate rigorosamente piene. E si perde la gioia di stare semplicemente insieme
Le giornate trascorrono spesso seguendo quanto riportato nelle caselle orarie dell’agenda: mattina scuola, pomeriggio alle 14 questo, alle 15: 30 quello, alle 17 quell’altro, colloquio alle 18:45 che finisca al massimo alle 19:45, perché è bene mangiare un boccone prima della riunione che inizierà alle 20:30 e terminerà alle 23. Mi capita di dire talvolta, in battuta ma neanche troppo, che certe volte la sera tardi, tornando in stanza, se mi chiedessero nome e cognome avrei bisogno di dare un’occhiata alla carta d’identità.
E vogliamo parlare dell’informalità? Con le agende personali strapiene fin da bambini, replica esatta del mondo adulto, essa non esiste più. Il cortile per trovarsi per due tiri al pallone e due risate sta scomparendo, come la nostra possibilità di fermarci un attimo per un caffè o per una chiacchierata dopo cena che, permettendoci di approfondire la conoscenza, apre alla possibilità che col tempo si possa confrontarsi sulle questioni serie del vivere su questa terra, o sulla fede.
Il paradosso: si organizza l’informalità
E allora che si fa? Si creano negli oratori progetti che permettano l’informalità: siccome questa spontaneamente non c’è più, tra le varie caselle dell’agenda ci mettiamo quelle due orette in cui i ragazzi, sotto lo sguardo attento di figure educative, possano finalmente fare una bella chiacchierata tra loro. Da parte dei nostri stessi laici impegnati, che fanno molto e con tanto impegno, la maturazione su questi aspetti procede a rilento.
Corrisponde alla scena da “eterno ritorno dell’uguale” la perenne richiesta di ulteriori incontri per singoli gruppi e, immancabilmente, l’esito è perfettamente prevedibile. A quegli incontri, faticosamente incastrati nell’agenda pastorale, vengono sempre le solite 10 persone e, spesso, a mancare di più è proprio chi ha richiesto l’incremento di appuntamenti, perché, del resto, “non posso far tutto don, ho lavoro e famiglia io…” (e qui il sottoscritto diventa più rosso dei suoi capelli… “. Ma buon’anima, perché mi chiedi incontri in più quando sai che tu per primo non potrai venire e dovrai attivare la mega macchina giustificativa per rendere ragione della tua assenza?”).
Non basta strafare
Resto della mia idea: o, come Chiesa, riprendiamo un po’in mano la questione del senso del fare, oppure, andando avanti a riempire le agende senza ben aver chiaro il perché, il nostro annuncio liberante, perché frutto della Risurrezione di Gesù, verrà sempre più percepito come il parlare stanco di un vecchio carrozzone incapace di dialogare con gli uomini di oggi e fatto solo di tante parole riversate in centinaia di sedute.
Ma davvero la Chiesa deve “stare in piedi a sedute?”. Io me lo domando, non mi rassegno alla frase, che molti confratelli pronunciano da anni, secondo la quale “l’unica vera novità è che non ci sono novità”. No, Gesù Cristo è la novità eterna. Non possono essere tali anche la nostra fede in Lui e, per quanto possibile, anche le nostre strategie pastorali?