Alla base della costituzione del governo giallo-rosso stanno tre filoni giustificativi : il primo, relativo al possibile aumento dell’IVA e, pertanto, alle ricadute pesantemente negative sui bilanci delle famiglie, sui consumi e, conseguentemente, sulle imprese produttrici di beni di consumo; il secondo, relativo ai rischi di sradicamento dal contesto geopolitico euro-atlantico; il terzo, relativo all’emergenza democratica che si stava profilando in una direzione da “democrazia illiberale”. Di questi tre motivi, quello della cosiddetta “emergenza democratica” è divenuto centrale e ideologicamente il più trainante per la sinistra.
Così è nato “il pericolo Salvini”, nel nome del quale si è corsi a chiudere le porte della città e a suonare la campana a martello, che chiama il popolo all’estrema difesa delle mura.
Salvini, i tentativi di “democrazia illiberale” e il nuovo governo
Il “pericolo-Salvini” è il mito fondativo del governo giallo-verde di legislatura. Ma il pericolo è una delle troppe “fake-news”. Tanto Salvini quanto Di Maio hanno proposto e tentato di praticare una forma di “democrazia illiberale”, per usare un ossimoro poco scientifico, assurto a categoria politica: Salvini ha teso by-passare il ruolo del Parlamento, in nome del controllo del Ministero dell’Interno; Di Maio a svuotarlo, in nome della democrazia algoritmica.
Erano dichiarate anche le volontà di mettere la briglia ai magistrati, di allineare i mass-media, di ridurre in un angolo il Parlamento, di intimidire la Presidenza della repubblica, di mettere le mani sui gangli dell’Amministrazione. Di Maio ha chiesto addirittura l’impeachement per Mattarella. Questi conati di democrazia illiberale rappresentavano una prima tappa verso un regime autoritario, tali da configurare un’emergenza democratica?
Le minacce gridate e il radicamento europeo, pietra di inciampo di Salvini
Certamente, erano minacce gridate e pratiche sguaiate. Ma non si è mai trattato di “emergenza democratica”! E non certo per la capacità di resistenza e di contro-mobilitazione del M5S, in gran parte complice di Salvini, o della sinistra divisa o della destra liberale irresoluta e ambigua. Il fatto è che nell’Italia del 2019 la complessità e la solidità della democrazia liberale è fondata su una diffusa acculturazione di massa circa i diritti – meno circa i doveri – ma, soprattutto, su uno sperimentato check and balance tra istituzioni, anche se nel sistema italiano assume talora l’aspetto di resistenze e contrattazioni corporative paralizzanti. Ed è fondata su un radicamento europeo – in primo luogo a Nord – della produzione, del commercio, della finanza, degli stili di vita e della mentalità. Nonostante qualche assonanze di linguaggio, il Paese non ha nessuna voglia di tornare al clima del 1922. Quanto all’Unione europea, lamentarsene e borbottare è un conto, volerne uscire è tutt’altro. Il Nord produttivo non se lo può permettere. E’ stata questa Italia la pietra di inciampo di Salvini.
Eppure, si obbietta, il 34% ha votato Salvini alle elezioni europee. Sì, solo che questo 34% vuole semplicemente una democrazia governante e decidente. Se decidi la TAV, la fai ora. Se decidi l’ILVA, lo fai ora. Se decidi le opere… Se dici che riformi la Pubblica amministrazione, lo fai ecc… Per chi vive di Stato, non c’è problema: i soldi devono arrivare ogni mese e arrivano. Anche a debito, caricato sulle nuove generazioni. Se le minacce di Salvini hanno avuto successo elettorale, nonostante la palese sguaiatezza, non è perché si è diffusa una cultura autoritaria e pre-fascista, ma perché chi lavora e fa lavorare sopporta sempre meno, in un contesto mondiale fattosi più esigente e più conflittuale, una democrazia paralizzata, indecisa, galleggiante sugli eventi. Sono almeno due decenni che lo sviluppo è paralizzato e che la politica non muove più un dito per sbloccare il sistema; in compenso distribuisce il denaro delle generazioni a venire per prendere i voti di quelle presenti. La politica della sinistra “romana” dopo decenni non ha ancora capito l’esasperazione del Nord, arrivata a tal punto da affidarsi a uno sbruffone Mosè di passaggio.
Il valzer delle leggi elettoriali
La risposta ultima che il PD e la sinistra radicale hanno concepito per far fronte all’emergenza democratica è la modifica della legge elettorale in senso proporzionale. Dopo il Mattarellum, dopo il Porcellum, dopo il Rosatellum, che contenevano dosi decrescenti di maggioritario, si torna all’antico. La giustificazione tecnica è la seguente: la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200 comporterebbe, a Rosatellum vigente, una dis-proporzione della rappresentanza nei Collegi uninominali a favore delle regioni più grandi. Insomma: rivince Salvini. E allora, di nuovo, rieccoci in piena “emergenza democratica”: la nuova maggioranza potrebbe eleggere il futuro Presidente della Repubblica e di lì correre a precipizio verso il controllo monopolistico di altre istituzioni elettive o no: per es. la Banca d’Italia.
Se questa è l’analisi, l’adozione del sistema elettorale proporzionale non può impedire a Salvini di vincere, ma certo non potrà governare da solo. Come è noto: nel proporzionale, vincono tutti e, soprattutto, governano tutti, maggioranza e opposizione. L’unico che perde è il denaro pubblico.
Alle spalle sta l’idea, esplicitamente teorizzata, che il ritorno al proporzionale serva a risuscitare una nuova “conventio ad excludendum”, questa volta nei confronti di Salvini. Come è già stato fatto notare in sede storica da E. Morando e G. Tonini su Il Foglio, la legge proporzionale non fu ideata per escludere il PCI, al contrario per includerlo. Oggi finirebbe per rinforzare le tendenze più radicalmente illiberali, spingendole oltre l’orlo del sistema. Quindi, logica inefficace e, peggio, controproducente. Negli anni ’70 ha prodotto il Partito armato e il Movimento del ’77.
Il PD e la strana rinuncia al maggioritario
Soprattutto, questa proposta del PD rimanda la pessima immagine di un partito, che rinuncia, nello spazio di un mattino, a quella vocazione maggioritaria, che prometteva istituzioni forti, una democrazia governante e stabile e ai cittadini/elettori una forma, almeno indiretta, di scelta del governo e quindi, un sistema elettorale coerente con quel fine. Come a dire: la battaglia referendaria del 2016 è stata uno scherzo. Con ciò dando ragione ex-post a quanti, sostenitori del NO, accusavano Renzi di aver proposto la riforma solo per vincere le prossime elezioni. Come a dire: i sistemi elettorali sono delle clave di volta in volta maneggiate dai partiti, quando sono al governo, per fermare le opposizioni sul bagnasciuga. Sulle questioni elettorali i partiti si presentano concavi e convessi. Gli elettori tirano la conseguenza che la politica è sempre più inaffidabile, prigioniera degli interessi immediati del ceto politico. Una politica a occhi bassi. Non stupisce che i sondaggi non siano entusiasti del nuovo governo.