Salute, salvezza, cura. Una sfida per il prete e la pastorale

Il Vangelo della XXVIII Domenica del Tempo Ordinario, il testo del vangelo di Luca che racconta della guarigione dei dieci lebbrosi, mi ha permesso, soprattutto per l’esercizio del ministero della predicazione, di riprendere qualche riflessione sul rapporto tra la salute e la salvezza. La riflessione si è allargata anche alla questione del prendersi cura delle situazioni di malattia. E’ una esperienza che costituisce una costante sfida per la pastorale della Chiesa.

Il Dio che guarisce è Dio misericordioso

Ho riletto volentieri, a tal proposito, alcune pagine di un bel testo del Vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla, molto conosciuto anche come teologo, che nel suo Liber Pastoralis dedica alcune pagine (precisamente le pagine 217-226) alla visita agli ammalati (mi permetto di consigliare vivamente agli operatori pastorali delle nostre comunità questo libro, che riflette sui fondamenti delle nostre pratiche pastorali: F.G. Brambilla, Liber Pastoralis, Queriniana, Brescia 2017).

Commentando proprio il testo evangelico della guarigione dei dieci lebbrosi, Mons. Brambilla fa notare che

è necessario ritornare con uno sguardo nuovo sul proprio bisogno di guarigione e sul risanamento ottenuto. Se la salute non diventa appello per un nuovo rapporto di comunione con Dio, esso è solo un bisogno esaudito, ma non diventa una chiamata ascoltata.

Solo il lebbroso guarito proveniente dalla Samaria è anche salvato, perché la sua riconoscenza, che lo fa tornare a prostrarsi dinanzi a Gesù e a ringraziarlo, lo libera dal peccato, che consiste nel non riconoscere in Dio il Dio della misericordia. In fondo, la salvezza è la verità della guarigione operata da Gesù e la guarigione è segno di quella salvezza che Gesù vuole donare.

Certo, quando noi ci guardiamo attorno, prendiamo atto del fatto che ci sono molti ammalati: tanti di essi si rivolgono a Dio, oltre che alle competenze tecniche della medicina, per guarire. E il dato oggettivo ci restituisce che qualcuno guarisce, qualcuno no.

La malattia di fronte a Gesù e il suo amore “disarmato e disarmante”

Come dunque porsi, come Chiesa, di fronte al soffrire dell’uomo? È necessario, innanzitutto, non fuggire dinanzi al significato del soffrire. Al contrario, è necessario fornire alla sofferenza un significato, mettendo in luce le prospettive che si aprono per il nostro volere, nella ferma convinzione, che viene dalla fede, che Gesù apre una via nuova.

Una via nuova perché Gesù, come ricorda il Vescovo di Novara, “guarisce il male lasciandosi vulnerare da esso, gli passa attraverso, smontandone i meccanismi, rompe i suoi artigli con un amore disarmato e disarmante”. Con la sua croce, Gesù prende in carico il dolore, anche quello estremo e insuperabile, presso il quale rimane, nel silenzio della croce e in attesa della Risurrezione.

Da un punto di vista pratico, per chi si prende cura degli ammalati, nella Chiesa, si tratta di avere ben presente che la malattia e la sofferenza non possono essere affidate esclusivamente alle competenze della tecnica, perché è necessaria la vicinanza a chi vive nel suo corpo l’esperienza della malattia. È la presenza dell’altro che “consente di ritrovare un’immagine di sé, al sicuro rispetto a quel nemico invasivo che è il male”. La prossimità aiuta ad accompagnare la libertà del sofferente e ad aprire il cuore alla speranza. È una prossimità silenziosa, tenerissima, che costituisce l’ultima e più radicale testimonianza dell’amore.