Lo stato d’animo del paese di fronte alla politica. Disorientamento e nausea

Foto: l’incontro del Presidente del Consiglio con gli operai dell’Ilva di Taranto

L’aereo dell’alleanza giallo-rossa continua a rollare rumorosamente sulla pista, ma non riesce ad alzarsi. Dei copiloti, uno apre il rubinetto del carburante, l’altro lo chiude.

Che cosa abbia spinto il PD in questo cul di sacco è noto: la paura di Salvini, la convergenza culturale con il M5S di una parte del PD, il governismo innato di un’altra parte. Governare con il M5S si è dimostrato impossibile sia per la destra sia per la sinistra. E Di Maio lo conferma: governiamo meglio da soli. Come a dire: dateci i pieni poteri! Salvini ne ha preso atto dopo un anno e si è arreso per non essere sconfitto. Quella di Salvini non è stata una mattana d’agosto, è stato un istinto di sopravvivenza del leghismo profondo.

Quanto al PD, non è stato e non è capace di “romanizzare i barbari”. Sui punti per loro decisivi – diminuzione del numero dei parlamentari, reddito di cittadinanza, quota 100, ILVA… – la spada di Brenno ha piegato il PD. I pentastellati hanno barbarizzato il PD o, più precisamente, ne hanno fatto emergere il lato peggiore, già poco sommerso. In realtà, il governo giallo-rosso si trova prigioniero dell’agenda di quello che lo ha preceduto. Il caso ILVA è il terreno minato di questa continuità: una condensazione di demagogia, populismo, incompetenza, giustizialismo, fondamentalismo ambientalista, parassitismo di massa, assistenzialismo. L’ILVA è l’autobiografia del Sud, dell’intero Paese, del suo sistema politico. L’effetto sullo stato d‘animo del Paese, ancor più venefico dei fumi dei forni, è quello di uno scoramento diffuso, di una “desperatio veri et boni”, di un disorientamento di massa, di una nausea verso la politica. E la nausea, si dovrebbe sapere, è un virus micidiale per la democrazia.

Qui, dunque, siamo arrivati. Qui, tuttavia, non vorremmo restare. Perché non é esattamente il Monte Tabor.

Ricorso alle urne o ricorso alle idee?

Chi scrive si sente confermato, oggi, nell’opinione espressa già ad agosto, prima della formazione del governo Conte bis: “Se la sinistra ascoltasse direttamente il Paese, soprattutto la sua parte più avanzata culturalmente e più produttiva, invece che traguardarlo attraverso il buco della serratura delle lotte tra partiti e dentro i partiti, andrebbe senza paura alla battaglia nel Paese, qualsiasi cosa accada, sulle questioni di fondo: la riforma semipresidenziale, il federalismo della responsabilità, il taglio della spesa pubblica, un sistema fiscale rigoroso, un’Unione europea federale e non intergovernativa, un nuovo sistema educativo nazionale…”.

Se allora potevano avere qualche fondamento il timore di una rottura di Salvini con l’Unione europea e il suo appello ai pieni poteri, oggi, proprio la riflessione condotta all’interno del Centro-destra ha portato Salvini, a seguito della sua auto-estromissione dal governo, a posizioni più mature riguardo all’Europa e all’Euro.

Quanto ai “pieni poteri”, in ogni caso, la realtà della democrazia italiana è ben lontana dal 1919 in Italia e dal dopo-1929 nella Repubblica di Weimar, cui hanno irresponsabilmente richiamato opinionisti e intellettuali di sinistra, colpevolmente ignoranti della storia. Per la quale, basterà qui limitarsi a ricordare che la neonata democrazia tedesca si trovò, tra il 1919 e il 1933, combattuta o malvista o debolmente difesa dai Socialdemocratici indipendenti – USPD – dai Comunisti – KPD – , dai nazisti – NSDAP – , dal Centro cattolico – Zentrum -, dalla burocrazia statale, dall’Esercito, dalla Presidenza della Repubblica, dagli intellettuali, dalla Chiesa cattolica e da quella luterana, da cui si separerà la Chiesa confessante solo nel 1934 con la Dichiarazione di Barmen contro il nazismo ormai al potere. Solo i socialdemocratici dell’MSPD difesero la democrazia liberale. La democrazia nell’Italia del 2019 è assai più solida o no?!

La drammatizzazione artificiosa del pericolo Salvini ha portato così a costruire una “Union” giallo-rossa tutt’altro che “sacrée” e ha finito per stabilizzare il consenso per Salvini, senza che si possa seriamente dire che gli Italiani pencolino verso la democrazia autoritaria. Le tendenze al peronismo sociale non portano necessariamente al peronismo politico.

Ciò detto, andare a elezioni oggi non è affatto risolutivo e potrebbe persino aggravare l’inaffidabilità del Paese sui mercati mondiali, se intanto dovesse perpetuarsi la drammatica Babele delle lingue che caratterizza il sistema politico e, dentro di esso, particolarmente la sinistra.

Emergono, in questa situazione confusa e disperata, tre grappoli di problemi: di sistema, di politics, di policy. Andare ad elezioni senza proposte univoche su questi tre nuclei, finirà per aumentare la confusione della domanda politica dei cittadini e incrementare ulteriormente improbabili offerte.

L’ILVA e il patriottismo dolce

Il caso ILVA – aggravatosi da un governo all’altro – dimostra che il sistema politico, così com’è, non è in grado di governare il Paese. Il caso ILVA è, infatti, il prodotto di irresponsabilità, di scarica-barile, di tatticismi, di alleanze furbesche e instabili tra forze politiche troppo eterogenee. L’eterogeneità non consente il governo del Paese.

Solo che essa non è tanto il prodotto spontaneo e naturale della complessità della società civile, quanto un artefatto del sistema politico e del sistema elettorale, che premia e incentiva le differenze. Segno di democrazia? Sì, se un regime politico democratico fosse solo rappresentanza. No, se deve essere necessariamente composizione, almeno maggioritaria, degli interessi per il governo del Paese. Un sistema istituzionale e un sistema elettorale, che incorporino la funzione di governo, “costringono” alla responsabilità le forze che competono per il governo del Paese e addomesticano il pluralismo selvaggio degli interessi corporativi, la cui somma può produrre eventualmente maggioranze, ma non governo.

Dal punto di vista del cittadino elettore, l’interesse a prevedere il futuro prossimo lo spinge a domandare governi stabili, fosse anche solo per difendere i propri interessi particolari. Ciò che si domanda ai partiti è una proposta di assetto istituzionale di governo del Paese. Dal punto di vista tecnico, c’è una soluzione semplice: la devolution ai cittadini-elettori della scelta del Capo del governo. In Parlamento possono accadere migrazioni, scissioni, fusioni, ma il Governo sta saldo per 5 anni. E’ anche l’unico modo per responsabilizzare gli elettori: maggiori poteri, maggiore responsabilità. Il voto non è più solo un applauso dello spettatore, è un coinvolgimento in responsabilità pubbliche.

Tuttavia, perché i partiti possano arrivare ad un accordo su questo terreno, è necessario che scatti la legittimazione reciproca. Da questo punto di vista, la vicenda storica dell’Italia è paradossale. L’uscita dal “bipolarismo imperfetto”, effetto del “Fattore K” fu avviata da Aldo Moro e tragicamente interrotta con il suo assassinio. Ma, quando il “Fattore K” fu sepolto sotto le macerie del Muro di Berlino, scattò, a partire dal 1994, non il “bipolarismo perfetto”, ma una sorta di riflesso totalitario sia nel polo vincente sia nel polo sconfitto: io solo rappresento la Patria!

Negli anni ’30 fu il totalitarismo a fascistizzare il culto della Patria: chi non era fascista non era un “Italiano vero”; dagli anni ’90 né Berlusconi né Salvini erano/sono legittimati a rappresentare il Paese né, viceversa, “i comunisti”. Come se una parte potesse avere il monopolio della Patria. Serve un “patriottismo dolce”, come raccomandava Ciampi. Di più, un disarmo unilaterale tra i poli opposti, se non è possibile concordare quello bilaterale. Sarebbe un gesto generoso di non-violenza ideologica, che tocca a chi sta al governo oggi e chi starà domani. Un tale disarmo potrebbe incominciare a spegnere i focolai di odio accesi in ogni ambito della società civile.