Profughi del clima: entro il 2050 saranno 143 milioni. L’inchiesta di Francesca Santolini

Il saggio “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (Rubbettino Editore 2019, Collana “Problemi aperti”, Prefazione di Marco Impagliazzo, Postfazione di Gianpiero Massolo, pp. 104, 12,00 euro) di Francesca Santolini, può essere considerato come la prima seria e documentata inchiesta sui profughi del clima contro ogni retorica e semplificazione dell’emergenza migranti.

L’autrice, giornalista esperta di temi ambientali, trattando un tema molto attuale, compie una necessaria operazione verità, perché il volume riproduce la migliore fotografia del dramma di milioni di profughi di fatto “fantasmi” per i quali nessun Paese ancora prevede uno status e il diritto d’asilo. Secondo uno studio della Banca Mondiale, entro il 2050 saranno ben 143 milioni le persone costrette a spostarsi dalle proprie terre per motivi climatici, ricorda nella Prefazione del testo Impagliazzo, quindi occorre far presto, perché il nostro Pianeta è “in grande sofferenza”.

Abbiamo intervistato Francesca Santolini che attualmente collabora con il quotidiano “La Stampa” e la trasmissione “Unomattina” di Rai 1, dove si occupa di ambiente e clima.

Per quale motivo nessuno parla dell’esodo biblico dei “Migranti climatici” fenomeno esplosivo in corso, pur avendo un’idea chiara di cosa accadrà? 

«Perché c’è una grande difficoltà a vedere il cambiamento climatico come un fenomeno sistemico, cioè si tende a vedere nel cambiamento climatico solamente le conseguenze ambientali, ecologiche. Nell’immaginario comune il cambiamento climatico viene associato allo scioglimento dei ghiacciai, c’è molta difficoltà a capire che quello stesso scioglimento dei ghiacciai ha un impatto che non è solo ambientale ma sociale, umanitario, economico in termini anche di sicurezza enorme. C’è una difficoltà a legare questi due temi, perché l’informazione, che dovrebbe essere il luogo deputato dove raccontare il cambiamento climatico, è poco scientifica. Non esiste ancora un’informazione scientifica in Italia, o è molto limitata. L’informazione italiana tende molto a politicizzare tutto e a non avere invece un approccio scientifico. Il cambiamento climatico è un tema scientifico, quindi occorre studiare, leggere e decifrare i rapporti che sono scientifici. Allora si capisce che quello stesso scioglimento dei ghiacciai come le inondazioni, la siccità, i fenomeni estremi a cui noi stiamo assistendo hanno delle conseguenze sociali e umanitarie enormi e che determinano già da oggi spostamenti forzati di milioni di persone».

È vero che la categoria di “rifugiato ambientale” non esiste ancora nel diritto internazionale, e che ciò rende queste persone dei “fantasmi”? 

«Sì, dal punto di vista giuridico queste persone sono dei “fantasmi” che non sono riconosciuti dal diritto internazionale e non possono beneficiare dello status di rifugiato che la Convenzione di Ginevra del 1951 concede solo a chi è perseguitato per razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o per le proprie opinioni politiche. Vengono considerati “migranti economici” e come tali il loro ingresso è soggetto al consenso del Paese che li riceve. Questo non aiuta a risolvere il problema. Bisognerebbe lavorare per cercare di riconoscere questa categoria. Il problema sono i parametri, è complesso lavorare su questa definizione di “profugo climatico”, perché prima di tutto bisognerebbe definire le aree condizionate dai cambiamenti climatici. Successivamente sulla base di questa classificazione ne discenderebbe la categoria di profugo climatico. Gli stessi profughi sono inconsapevoli di essere profughi climatici. Nel libro ho intervistato alcune persone che provenivano dal Bangladesh, nei verbali risulta che hanno dichiarato di non avere più una casa, perché c’era stata un’inondazione. Niente più abitazione e niente più raccolti. Questa è la caratteristica della migrazione ambientale, che si distingue dalle altre migrazioni. Parliamo del carattere della non volontarietà, la migrazione ambientale avviene perché non c’è più possibilità di sopravvivenza nel territorio di origine, non c’è più accesso all’acqua, alla terra. Parliamo di territori resi inabitabili dalle conseguenze del clima. Queste persone a livello giuridico non sono ritenute degne di tutela, questo lo trovo sconvolgente».

Il Norwegian Refugee Council ha registrato nel corso degli ultimi otto anni un totale di 203,4 milioni di spostamenti collegati agli eco-disastri, una cifra che fa impressione. Qual è attualmente la situazione in Italia dei flussi migratori a causa del clima? 

«La maggior parte dei profughi che arrivano in Italia sono profughi climatici. L’intento del libro è quello di fare chiarezza sul tema dei migranti. In realtà, nonostante venga gridata questa emergenza dei migranti, a oggi, stando ai dati dello stesso Ministero degli Interni aggiornati a giugno 2019, in tutta Europa sono arrivati 25mila migranti per una popolazione di 500 milioni di persone. Questa non è sicuramente da considerarsi un’emergenza, ma lo sarà nei prossimi anni quando assisteremmo a un vero e proprio esodo climatico. L’Alto Commissariato per le Nazioni Unite e l’Organizzazione Nazionale per le Migrazioni hanno dichiarato che entro il 2050 si raggiungeranno tra i 200 e i 250 milioni di rifugiati ambientali, con una media di 6 milioni di persone costrette ogni anno a lasciare il proprio paese. Oggi non c’è nessuna emergenza, è molto facile strumentalizzare poche centinaia di persone su di una nave e lasciarli lì per giorni per dimostrare che si fa qualcosa, quando la vera emergenza è il clima, il cambiamento climatico. Bisognerebbe avere un approccio scientifico anche nell’approccio alla gestione delle migrazioni con politiche che vadano a risolvere le cause, perché stiamo parlando di un fenomeno che avrà proporzioni gigantesche e che si sta sottovalutando».

Chi sono i Pacific Climate Warriors? 

«Sono un gruppo di attivisti climatici che compiono azioni dimostrative a difesa del clima per denunciare la loro situazione drammatica. Questi attivisti provengono dalle isole del Pacifico che sono l’emblema del migrante climatico, perché stanno sprofondando sott’acqua. Alcune zone del Pianeta stanno andando sott’acqua, questo dovrebbe farci riflettere considerato quello che sta avvenendo in queste ore a Venezia».

I migranti climatici, i profughi del clima, sono le vittime della nuova migrazione forzata, che rischia di trasformarsi nella più grave crisi dei rifugiati dalla II Guerra Mondiale e coglie impreparata l’Europa. Il mondo sta rispettando l’Accordo di Parigi sul clima e come si potrà affrontare la più grande sfida del XXI Secolo? 

«No, al momento no, benché importante e simbolico, l’Accordo di Parigi sul clima stenta a decollare, perché al momento i contributi presentati dai Paesi non bastano a tenere la temperatura del Pianeta al di sotto del grado e mezzo come stabilito a Parigi. Bisogna lavorare di più sulla riduzione delle emissioni anche se l’adattamento non basta. Noi possiamo adattarci quanto vogliamo ma se non si riduce alla fonte la causa del cambiamento climatico, non ci sarà adattamento che terrà alle conseguenze dello sconvolgimento climatico. Sul tema dei migranti c’è un ripensamento sulle politiche di cooperazione che sono ancora troppo nazionalizzate e che dovrebbero guardare a strategie comuni. Per gestire un fenomeno di massa come quello delle migrazioni climatiche, occorre capire che il problema è globale anche se ha delle ricadute locali. Serve una “governance” globale su questo fenomeno molto più forte. Ricordiamoci che “nessun uomo è un’isola”, nessuno Stato ce la può fare da solo».