La festa fracassona di fine anno. La paura della fine e la necessità di dimenticare

La festa di fine anno resta la più scontata e la più stravagante. Scontata perché è normale, lo fanno tutti, si capisce che a una tornata così significativa della vita si faccia festa. Ma è stravagante se si cerca di capire le ragioni di fondo di una festa siffatta. Anche perché, quest’anno come gli altri anni, ci è scappato un morto e qualche decina di feriti per via dei botti.

Una strana festa

Se è consentito essere un po’ ingenui, ci si meraviglia che si festeggi qualcosa che finisce. La festa avrebbe senso se quello che finisce ci ha fatto molto soffrire. Ma è un po’ difficile pensare che il 2019 è stato solo sofferenza e lo è stato per tutti.

Si capisce forse qualcosa di più se si pensa anche che la festa della fine viene, in qualche modo, controbilanciata, da quella dell’inizio: “Buona fine e miglior principio”, si usa dire. Ma la stranezza, al di là di tutto, resta, se non altro per gli aspetti esorbitanti della festa, i suoi furori eccessivi, le distruzioni, i mortaretti e tutto il resto…

Allora si è tentati di filosofeggiare, di andare alle ragioni nascoste proprio perché profonde. Vero che filosofeggiare sul cenone, sui brindisi e sulle piazze piene dà la sensazione di voler trovare l’introvabile. Ma spesso gli uomini sono profondi anche quando sono superficiali.

La disperata necessità di distrarsi

Mi viene il sospetto che il grande fracasso della festa di fine anno e di inizio anno nuovo è fatta proprio per distrarsi, per non pensare. Si fa festa non nonostante la fine, ma proprio perché è la fine: pensare che qualcosa passa e non torna più, al tempo che corre via inesorabile, fa male. E allora è meglio non pensarci. Facciamo di tutto per non pensarci. Facciamo una gran festa, ma proprio grande, che ci costringa a pensare ad altro, almeno per una sera.

Mi ritrovo a ricordare, mi si perdoni la cosa che è un po’ snob, soprattutto con la festa di fine anno, a ricordare Pascal, il grande scrittore francese del ‘600. Dice Pascal: “Nulla è tanto insopportabile per l’uomo quanto lo stare in riposo completo, senza passioni, senza preoccupazioni, senza svaghi, senza applicazione. Allora sente il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Immediatamente dal fondo della sua anima verranno fuori la noia, la tetraggine, la tristezza, l’affanno, il dispetto, la disperazione”.

Insomma, si tratta di dimenticare e tanto più la cosa da dimenticare pesa, tanto più bisogna darsi da fare per dimenticare.

“L’uomo, dice ancora Pascal, vuol essere felice, e vuole soltanto esser felice, e non può non voler esser tale. Ma come fare? Per riuscirci, dovrebbe rendersi immortale; siccome non lo può, ha risolto di astenersi dal pensare alla morte”.

Per questo, quello che ci fa più paura – la morte – è quello cui si pensa di meno. Sempre, e figurarsi a fine anno.

Naturale che tutti biografi concordino nel sostenere che Blaise Pascal, autore dei celebri “Pensieri”, nato nel 1623 e morto nel 1662, non ha mai partecipato a un cenone di fine anno.

Buon anno, comunque.