Centro di aiuto alla vita a Bergamo: dal 1980 ha fatto nascere quasi cinquemila bambini

Sono più di trecento, su territorio italiano, i Centri di aiuto alla vita (Cav), che, da statuto, si propongono di «difendere la vita di ogni essere umano senza eccezione, dal concepimento fino alla morte naturale», offrendo un’alternativa valida all’aborto e un aiuto concreto a quelle donne che si trovano a fare i conti con una gravidanza inattesa. Anche Bergamo può vantarne uno: quello situato al primo piano del civico 8 di via Conventino. «I Cav nascono all’interno del Movimento per la vita, verso la fine degli anni Settanta, in risposta alla legge 194 – spiega Anna Daini, presidente, da vent’anni, del Cav Bergamo –. Il nostro, esattamente, vede la luce il 22 dicembre del 1980». Il centro, sostenuto anche dai fondi dell’Otto per mille, è aperto tre giorni alla settimana (lunedì, mercoledì e venerdì), sia al mattino che al pomeriggio (dalle 9.30 alle 11.30 e dalle 15.30 alle 17.30). «Gli operatori impiegati all’interno del centro, tutti volontari, sono 25 e, ad ogni turno, ne sono presenti tre  – illustra Daini –. Dopo aver accolto e ascoltato la donna, cercano di capire quali siano le sue difficoltà e le sue necessità e si impegnano a sostenerla in nome delle finalità dell’associazione. Le difficoltà maggiori sono quelle legate alla disoccupazione, al lavoro occasionale, sottopagato o senza diritti e all’alloggio insufficiente. L’aiuto che offriamo è economico e materiale, ma anche medico e legale. Quel che ci preme, inoltre, è il coinvolgimento e la responsabilizzazione, se possibile, del compagno e dei familiari, affinché il peso della maternità non cada solo ed esclusivamente sulla donna, così che lei possa vivere con serenità una gravidanza difficile da affrontare o non desiderata». Due, sostanzialmente, i percorsi volti ad aiutare le madri in emergenza: «Gli operatori, durante le riunioni (che avvengono due volte al mese), discutono dei casi affrontati e cercano di capire quale sia il progetto migliore per ogni singola donna – afferma Daini –. Ci sono i progetti comuni, se così si può dire, ovvero quelli caratterizzati dall’erogazione di buoni alimentari e buoni farmacia (25 e 50 euro), o quelli caratterizzati dall’accompagnamento sanitario e psicologico o dall’assistenza abitativa. C’è poi il Progetto Gemma, dedicato alle donne che si rivolgono al nostro centro entro il terzo mese di gravidanza, ovvero entro i 90 giorni in cui la legge permette l’aborto. Questa opportunità, coordinata dalla Fondazione Vita Nova, è un aiuto speciale, una vera e propria adozione prenatale a distanza: versando 160 euro al mese, per un periodo minimo di 18 mesi, un cittadino (ma anche una scuola, un comune o una parrocchia) può adottare una mamma, consentendole di portare a termine, in tutta tranquillità, il periodo di gravidanza e aiutandola durante il primo anno di vita del bimbo». Il Progetto Gemma garantisce riservatezza e l’anonimato della mamma, del bambino e dell’adottante, ma permette, a quest’ultimo, di ricevere gli aggiornamenti più importanti sul proseguo dell’adozione. «Il progetto è un vero e proprio salvavita – spiega Daini –, perché è rivolto a quelle donne che, tramite certificato Ivg (Interruzione volontaria di gravidanza), dimostrano che, da parte loro, la volontà di abortire è alta. La Fondazione Vita Nova valuta ogni richiesta e, nel caso ritenga quest’ultima legittima, dà il via al sostegno. Ovviamente, i 160 euro al mese vengono integrati con vestitini, farmaci, latte in polvere, pannolini e altri beni di prima necessità». Quasi 70 mila gli euro stanziati, nel 2018, dal Centro di aiuto alla vita; 4.870, invece, i bambini nati a partire dagli anni Ottanta. «Faremmo gran poco senza la volontà dei genitori – afferma Daini –, che, fra l’altro, son sempre tornati ringraziandoci, felici di aver avuto il loro bambino. Insomma, il bilancio, da parte degli utenti, è sempre stato positivo. Con alcune donne, inoltre, abbiamo creato una solida amicizia che dura nel tempo. Ci sono grate». Un impegno, quello del Cav, che non si scoraggia nemmeno di fronte ai cambiamenti della società. «Quest’anno abbiamo preso in carica 446 donne, fra gestanti e madri – dice Daini – , una cifra inferiore rispetto a quella degli anni precedenti. Di queste, fra l’altro, solo 12 sono italiane. Un mutamento che, piano, piano, va, in un certo senso, a modificare la nostra finalità: sempre più spesso, ci limitiamo ad aiutare donne che hanno già deciso di avere il bambino o che sono già madri». Un servizio, quello del Cav, a favore delle donne e della comunità, ma che non sempre viene riconosciuto dallo stato. «Spesso, le donne si rivolgono a noi perché non hanno trovato l’aiuto sperato presso l’ospedale o presso i servizi sociali – dice Daini –, anzi, molte volte, sono proprio i servizi sociali a dire alle donne di rivolgersi a noi e questo perché essi non erogano denaro. Un paradosso: il Cav dovrebbe essere un supporto alle politiche sociali di una nazione e, invece, finisce per diventare l’interlocutore principale della gestante». Ma, spesso, l’indifferenza dello stato si sposa con il pregiudizio ideologico. «Abbiamo un servizio di primo ascolto presso l’ospedale Papa Giovanni XIII, nella divisione ostetricia-ginecologia (ingresso 9, ambulatorio 123) – spiega Daini –. In questo luogo, siamo presenti dalle 9 alle 11.30, il martedì mattina e, nell’arco di questo tempo, siamo a disposizione delle donne che, in quel giorno, hanno prenotato l’interruzione volontaria della gravidanza: l’accordo con l’ospedale prevede che le donne, prima di prendere la decisione definitiva, dovrebbero essere mandate da noi, ma, in realtà, è un patto non scritto e ne vediamo veramente poche: nel 2018, solo otto. Un numero esiguo che ci spinge a pensare come la nostra presenza, forse, venga taciuta se non censurata. Abbiamo parlato con donne che, dopo aver abortito, ci hanno riferito come avrebbero optato per una scelta diversa se avessero saputo della nostra esistenza. Se non c’è informazione, è inutile. È vent’anni, del resto, che siamo in ospedale, ma non è cambiato nulla». Una forma di resistenza che deve far fronte anche alla contestazione più dura.  «Ci accusano di fare “proselitismo” negli ospedali, di essere bigotti e oscurantisti e di non rispettare la legge. Non è vero. Innanzitutto, non rincorriamo le donne: se si rivolgono a noi lo fanno in totale spontaneità e libertà e, evidentemente, lo fanno perché interessate a portare avanti la gravidanza. Chi non vuole un figlio da noi non viene proprio. Non siamo, poi, dei fuorilegge; al contrario: ci rifacciamo al testo della 194 e, più precisamente, alla parte in cui si afferma come il compito dei consultori è “contribuire a far superare le cause che possono portare all’interruzione della gravidanza”. Con il nostro operato, sempre per e con le donne, cerchiamo di eliminare i motivi che possono indurre la scelta dell’aborto, che è sempre una sconfitta. E sarebbe ora di finirla di additare come “circuita” una donna che, dopo aver parlato con noi, sceglie di portare avanti la gravidanza. Bisognerebbe, invece, esserne felici, dato che mi pare oggettivamente bello e naturale non sopprimere una vita, soprattutto in quest’epoca di “inverno demografico” che attanaglia l’Italia (Bergamo inclusa) e per la quale lo stato non si spende a sufficienza». Un problema non solo sociale. «Certo, manca il lavoro e il tessuto familiare è sempre più labile, ciò spinge le coppie a non avere figli. Ma il problema è anche culturale – dice Daini –. Le persone non hanno più voglia di fare sacrifici e ognuno rincorre la realizzazione personale. È una società liquida, sempre più votata all’edonismo, alla cultura della morte (e dello scarto), che soffoca la cultura della vita.  E l’aborto è un po’ il simbolo di tutto ciò, la rappresentazione dell’ultimo per antonomasia, di cui, sempre più spesso, non interessa nulla a nessuno».