Coronavirus: il bene non può essere selettivo. Prendiamoci cura dei più fragili

«Prima donne, vecchi e bambini!». Ognuno di noi ha sentito o letto questa celebre espressione e, più o meno, ognuno ne conosce il significato. Si riferisce a una consuetudine marinaresca, secondo la quale, nel caso ci si trovi in una situazione di pericolo di vita, le donne e le persone più deboli devono essere salvate per prime.

Una sorta di vero e proprio protocollo, messo in pratica, nel 1852, durante il naufragio dell’HMS Birkenhead e durante quello del Titanic nel 1912 e reso popolare dal romanzo Harrington: A True Story of Love, pubblicato, nel 1860, da William Douglas O’Connor. Un’esclamazione apparentemente retorica, che non può, però, essere relegata, esclusivamente, alla narrativa d’appendice o alla cinematografia, poiché il suo senso ultimo, estremamente attuale, insegna che, anche in momenti tragici, l’istinto di sopravvivenza dev’essere equilibrato da responsabilità e sensibilità e non condito da panico ed egoismo. Ma pietà ed empatia, in questi giorni caotici e drammatici, in cui le sirene delle ambulanze dominano il silenzio del periodo quaresimale, paiono esser state dimenticate.

Nelle ultime settimane giornali e telegiornali hanno evidenziato, con pruriginosa insistenza, l’età dei morti per Covid-19, sottintendendo come questo virus sia letale quasi esclusivamente per le persone anziane, magari pure con qualche malattia pregressa e, quindi, come le persone giovani e sane non si debbano preoccupare. Del resto, basta accendere la tv, sintonizzarsi su uno dei tanti telegiornali ed ascoltare. Si pensi, per esempio, al Tg2 di sabato scorso («I deceduti sono 233, soprattutto persone sopra gli ottant’anni con altre patologie»), ma anche al Corriere della Sera che, con una pagina curata da Valentina Santarpia e Chiara Severgnini, offre, ai propri lettori, un apposito link, grazie al quale si può verificare l’anagrafica dei deceduti per Coronavirus. Una dinamica, all’inizio, forse comprensibile, forse giustificabile, ma che, ora, pare mutare in una specie di mantra, in un rituale laico, morboso e inopportuno, che non si propone più di tranquillizzare gli animi (dei non attempati, beninteso), bensì di demarcare un solco divisorio fra i giovani e i sani, da una parte e i fragili dall’altra. Un modus operandi che da illustrativo, se così si può dire, assume, piano, piano, i caratteri di un fenomeno prescrittivo. «Stiamo sacrificando cose imprescindibili come il diritto all’istruzione, la socialità, infine l’economia di un paese in nome degli over 75», così, sul suo profilo Twitter, Fuani Marino, giornalista e scrittrice, commenta la situazione attuale in Italia, soffermandosi sul fatto che le misure speciali adottate dal governo siano volte, esclusivamente, alla salvaguardia delle persone più anziane. Si potrebbe obiettare che quanto scritto non sia neanche del tutto vero (la profilassi per contenere il virus non protegge solo gli anziani), ma non è questo il punto. Quel che stupisce, infatti, è il cinismo gratuito con il quale una persona (e, in questo caso, una persona di cultura) si esprime, banalizzando, fra l’altro, un problema serio e complicato e affermando, neanche poi troppo velatamente, come le persone non più giovani possano essere sacrificabili sull’altare della ragione di stato (e dell’economia). Un’opinione che fa rabbrividire e che, purtroppo, non può essere liquidata come una svista. In risposta ad un commento critico, la Marino rincara infatti la dose: «Anch’io ho una madre (che amo molto) vicina agli ottant’anni. E tuttavia in termini di rischi/benefici della collettività continuo a pensarla così». Queste parole pesano come macigni e non desta sorpresa come, sempre sul web, in relazione ai reparti di rianimazione ormai saturi di pazienti, ci sia un sottobosco di persone che la pensano esattamente allo stesso modo: «I miei genitori sono anziani e vorrei vivessero ancora un po’ – scrive un utente Facebook –. Comunque sono favorevole all’eutanasia e per me dovrebbe diventare una scelta di responsabilità civile e dignità per i malati e gli anziani che sentono avvicinarsi il loro trapasso». L’eutanasia come scelta civica per risparmiare sui costi, la morte come monopolio nelle mani dello stato, la giovinezza come eterno presente dell’uomo: uno scenario a dir poco distopico e scientista, che farebbe impallidire persino Kafka, Orwell e Dick. Certo, il problema rimane: secondo l’Uecoop (Unione europea delle cooperative), l’emergenza Coronavirus metterà presto a rischio l’assistenza per anziani, bambini e disabili, l’Oms, invece, denuncia la carenza di ossigeno in molte nazioni colpite dal morbo, mentre la Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva (Siaarti), in un documento di guida etica, rivolto ai primari, afferma come in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie sia necessario «puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico». Ma è etico tutto questo? In un Paese in cui mancano 56 mila medici, 50 mila infermieri, in cui, negli ultimi cinque anni, sono stati soppressi 758 reparti e in cui si è stanziato, per la ricerca, solo lo 0,2% degli investimenti, è giusto tutto ciò? È corretto che a rimetterci siano i più indifesi? Forse, in un momento come questo, in cui la sanità pubblica rischia il collasso, le parole di Vanessa Trevisan, figlia di Adriano, 78enne deceduto venerdì 21 febbraio e prima vittima del virus, appaiono come un faro in mezzo alla tempesta: «Adriano Trevisan non è un numero, non è la prima vittima italiana del Coronavirus, non è un nome e un cognome sul giornale. Adriano Trevisan è mio papà. È il marito di mia madre Linda. È il nonno di Nicole e di Leonardo». Chi di noi, nel proprio cuore, non si commuove nel sentire queste parole? Chi di noi, se ne avesse la possibilità, non vorrebbe che i propri genitori, seppur anziani, rimanessero, con i loro occhi carichi di memoria e tenerezza, su questa terra il più a lungo possibile? Perché la loro vita, la vita di tutti coloro che giovani non lo sono più, dovrebbe valere meno di quella di altre persone? In una società come la nostra, che esorcizza la morte e disprezza la vecchiaia, rivendicare l’esclusività e l’importanza della vita umana e difenderla, in qualsiasi sua fase e condizione, è un atto rivoluzionario. Asserire il contrario, forse, significherebbe affermare che i nazisti, circa settant’anni fa, hanno vinto la guerra. In questi giorni di paura e delirio, quindi, sarebbe bene recuperare quella compassione perduta, autentica àncora di salvezza contro l’iceberg del solipsismo e dell’indifferenza, così da non dover gridare, come impazziti, «Prima i giovani, i forti e i sani!». Quella stessa compassione che suggerì ad Enea di farsi carico del padre Anchise, vecchio e malato, così da salvarlo dalle fiamme di Troia e portarlo con sé in Italia.