“Non abbiate paura”: nuovi modi per “aprire le porte” ai tempi del Coronavirus

“Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura!”. Era il 22 aprile del 1978 quando San Giovanni Paolo II pronunciò questo discorso, all’inaugurazione del suo pontificato.
Nel clima che stiamo vivendo adesso, quarantadue anni dopo, le sue parole acquistano un significato dirompente: in un mondo che si è interamente chiuso entro i suoi confini, in cui i muri di casa sono diventati i nostri orizzonti, come si fa a spalancare le porte?

Una nuova “guerra mondiale”, un nemico invisibile

Da quasi un mese, ormai, ci troviamo nel pieno di una nuova guerra mondiale (ormai sono molti i capi di stato che la definiscono in questo modo, per le ricadute che avrà sulla società, sull’economia, sui rapporti tra i Paesi). Un conflitto scoppiato senza l’utilizzo di armi, in cui tutti i popoli si trovano a combattere contro lo stesso nemico invisibile, subdolo, il coronavirus. Un nemico che si trasmette attraverso di noi, usandoci come mezzo e veicolo, che ci priva di tutte le nostre abitudini, compresi i riti religiosi. Ci ruba la routine quotidiana e la serenità, ci separa dagli affetti più cari, ci nega perfino il conforto del contatto umano (proibiti abbracci, baci e strette di mano) costringendoci a stare lontani, ad almeno un metro, a indossare guanti e mascherine.
Mentre scriviamo circola sulle bacheche dei social network l’immagine più triste, quella di una lunga colonna di camion dell’esercito che portano via le bare dal cimitero e dalle chiese di Bergamo: sono troppe, la nostra città non riesce più a contenerle e a garantire le procedure di cremazione. Altri comuni hanno accettato di aiutarci con i loro forni, per restituire poi le ceneri alle famiglie per la sepoltura. Questa foto è terrificante. La paura ci stringe nella sua morsa, vorrebbe costringerci a ripiegarci su noi stessi, a guardare il mondo come un luogo ostile.

Lampade accese nella notte

Eppure in un momento così buio, proprio nel pieno della notte, c’è sempre chi tiene le lampade accese, in attesa dell’alba. Può sembrare un paradosso, ma proprio in questo tempo oscuro, in cui tutti siamo fisicamente isolati, emergono tante nuove forme di apertura e di vicinanza, alcune più evidenti, altre silenziose, ma forti. Pensiamo alla solidarietà e alle raccolte di fondi a sostegno della sanità e dei soggetti più fragili, che hanno già permesso di attivare aiuti concreti significativi, di ampliare i posti di degenza, di acquistare nuovi macchinari. Alle mille iniziative pastorali di vicinanza messe in atto in modo creativo da parrocchie e oratori (perfino il Papa le ha notate e apprezzate). A tutti i volontari che si sono mobilitati per dare una mano ai soggetti più fragili, a chi non può uscire, a chi non ha famiglia. Pensiamo a tutte le persone che con grande senso di responsabilità, senza rumore, nonostante i rischi personali, continuano a tenere insieme la società facendo funzionare i servizi “di prima necessità”, in ogni ambito, non solo sanitario. Ai nostri bambini e ragazzi che studiano a casa, sopportando la mancanza di libertà, e che pur essendo costretti a crescere in fretta – come non avremmo mai immaginato – continuano a riversare sul mondo uno sguardo limpido e fiducioso, offrendo ai grandi l’energia e la speranza per il futuro (“Andrà tutto bene”). Forse anche questi sono modi per “aprire le porte” come diceva San Giovanni Paolo II e di affrontare la paura (grandissima) di questo momento.

Dipendiamo gli uni dagli altri: nessuno si salva da solo

Raccogliamo l’invito di Papa Francesco: “Non sprecate questi giorni difficili”. Come scrive la poetessa indiana Rupi Kaur, “nei tempi più bui ci siamo trasformati nella versione più luminosa di noi stessi. Ci vuole una crisi per ricordarci che dipendiamo gli uni dagli altri. Non andremo da nessuna parte se proviamo a tirarcene fuori da soli. Le persone sono lontane le une dalle altre, ma così si stanno salvando a vicenda. E mentre il mondo vaga nell’incertezza nascono nuove idee, progetti, invenzioni. Cerchiamo di renderci utili, perché non c’è modo migliore di impiegare questo tempo. Non posso pensare a un modo più bello per unirci tutti, non penso che ci sia un modo più umano per sopravvivere”.

Nella foto: preghiera nella chiesa parrocchiale di Nembro, uno dei paesi più colpiti dall’epidemia di coronavirus nella nostra diocesi. Copyright Giovanni Diffidenti