“Dio in Quarantena”. Teologia ai tempi di un'”Apocalisse a domicilio” secondo Lorenzo Fazzini

Nell’e-book gratuito Dio in quarantena (Editrice Missionaria Italiana EMI 2020), l’autore Lorenzo Fazzini, scrive di getto, considerata la difficile situazione nella quale stiamo vivendo “Una teologia del coronavirus”, come recita il sottotitolo del testo. Da inizio marzo tutta l’Italia è in quarantena a causa del propagarsi del virus Covid19, sbarcato nel nostro Paese e in Europa dalla Cina. Un virus così insidioso, che miete vittime a centinaia, ogni giorno, e sta mettendo a dura prova la resistenza fisica e mentale della popolazione di intere nazioni.

Gli italiani, malgrado tutto, si sono scoperti resilienti, convinti che presto si uscirà da questa “impasse”, certamente la più grave emergenza dopo la fine della II Guerra Mondiale e che quindi alla fine, “andrà tutto bene”. Se è vero che in questi giorni dolorosi e complessi la fede rischia di vacillare e il dubbio pare insinuarsi, l’autore, direttore di EMI, ha provato a stilare una piccola riflessione teologica sul Covid19.

“Queste note sono mosse da una domanda, quella che dimora, credo, in tanti e tante: dov’è Dio di fronte al virus? Dove lo si può trovare? E qualcun altro potrebbe spingersi ancor più in là: come lo si può pensare?”, ragiona l’autore scrivendo di questa “Apocalisse a domicilio”, che ha cambiato le nostre abitudini e le nostre esistenze per sempre.

Abbiamo intervistato Lorenzo Fazzini, nato nel 1978, giornalista e scrittore, laureato in lettere e diplomato in scienze religiose, il quale vive e lavora a Verona e scrive articoli di cultura e religioni per i quotidiani “Avvenire” e l’”Osservatore Romano”.

Di fronte a questa pandemia, che sta provocando tanto dolore e tanti morti, può accadere che ci si interroghi su dove sia Dio in questo momento. Che cosa possiamo rispondere a tutte quelle persone che hanno un attimo di smarrimento e si pongono questa domanda?

«Penso che ci siano tantissime persone che molto meglio di me possono rispondere a questo interrogativo. Sono i parenti, i figli, le moglie e i mariti di chi, a Bergamo come altrove, sta vivendo il dramma di questa tragedia: la morte improvvisa e imprevista dei propri cari, con il surplus di dolore di non potergli stare accanto e di non potergli dire addio. So per esperienza quanto “il” momento finale della vita dei propri cari resti impresso nella nostra memoria e che lo si possa considerare un dono dal cielo (o dalla vita, per chi non crede). Dov’è Dio? Dio, almeno il Dio cristiano, è lì, in quei reparti di terapia intensiva, intubato anche lui. Come scrisse Elie Wiesel nel La notte, Dio è impiccato in quel giovinetto che si dibatte, moribondo, sulla forca, in quel campo di concentramento in cui Wiesel venne rinchiuso. Dio non è quello che ci siamo messi in testa, un essere che non sente e resta al di là delle nuvole. Dio, almeno il Dio cristiano, soffre con noi»».

Si può fare una teologia del Covid-19 ed è possibile pensare teologicamente il coronavirus?

«Scrivendo le righe di Dio in quarantena ho specificato più volte che non intendo la teologia come attività di accademia, lontana dalla vita reale. Sarebbe un insulto doppio per quanti soffrono in questo momento. Il pensiero della fede deve guardare la vita concreta. Non voglio certo paragonarmi a lui, ma Dietrich Bonhoeffer durante la seconda guerra mondiale diceva che non si può cantare il gregoriano se non si unisce il proprio grido al grido degli ebrei perseguitati. Ebbene, se diamo ascolto a Ignazio di Loyola che diceva che bisogna trovare Dio in tutte le cose, penso che ci si debba interrogare su dove trovare Dio in questa pandemia, altrimenti il nostro gesto di credere non passerebbe al vaglio della sofferenza. La fede ce lo chiede e ce lo domanda la storia che viviamo. Dobbiamo chiederci dov’è la speranza cristiana di fronte alla fotografia dei camion militari nella notte di Bergamo, carichi di salme. Io, nel mio piccolissimo, ho provato a interrogarmi e a lasciarmi condurre da chi, naturalmente, ne sa più di me, scrittori e pensatori che hanno vagliato il buio della vita e hanno intravisto una piccola luce, piccolissima, eppure in grado di squarciare la notte più nera».

Sostiene che Covid19 e cristianesimo hanno qualcosa in comune. Ce ne vuole parlare?

«Il Covid19 e la diffusione del cristianesimo hanno effettivamente delle somiglianze: entrambi sono nati in un posto molto preciso e localizzato (uno in un mercato di una città cinese, l’altro in una cittadina della Galilea), in un periodo molto determinato, e si sono sviluppati a livello mondiale. Questa dimensione globale mi ha fatto sorgere l’assonanza tra queste due dimensioni. Ce ne sarebbero molte altre da segnalare anche per contrasto, come ha fatto il cardinale Tagle in un suo messaggio video: il coronavirus ci chiede di lavarci sempre le mani, ma il cristianesimo ci chiede di non lavarcele alla maniera di Pilato».

Nell’e-book si chiede se c’è un senso, qui e ora, a quanto stiamo vivendo. Quale risposta si è dato?

«Io credo che il senso di quello che stiamo vivendo sia la grande solidarietà e il grande eroismo che si sta diffondendo a macchia d’olio. Persone che non si tirano indietro nel proprio dovere di medici e infermieri (senza retorica, si badi: so per esperienza di famiglia cosa sia la paura di chi indossa un camice in questi giorni), donazioni e omaggi di aziende, di singoli, di anziani e di miliardari. Questo virus sta diffondendo un senso di domanda: per cosa ho vissuto? Per cosa vivo? Sono capace di andare oltre me stesso?».

“L’epidemia è un segnale di Dio”. Mentre l’emergenza epidemiologica del Covid-19 è in atto, i predicatori on line hanno iniziato a divulgare un messaggio sui social network: “La Bibbia ha predetto il Coronavirus”, sostenendo che la pandemia è un segnale della fine del mondo. Che cosa ne pensa?

«Come diceva un mio vecchio maestro, “la madre degli imbecilli è sempre incinta”. Solo una vecchia teologia (anche per questo ho scritto queste pagine: per offrire, spero, un pensiero nitido) può pensare che Dio sia adirato per qualcosa con l’uomo. Epperò anche una certa orazione tradizionale che vige ancora nelle nostre parrocchie non viene schiodata: quando si insegna alla gente a pregare in confessionale L’atto di dolore … si arriva a dire: “Ho meritato i tuoi castighi”. Ecco, non dovremmo poi stupirci se c’è qualcuno che dai pulpiti telematici ha buon gioco nell’annunciare urbi et orbi che Dio ha voluto “avvertire” l’uomo con questi castighi… Forse una pulizia semantica della nostra fede, anche nelle sue espressioni popolari, che non disprezzo per nulla, essendo io per primo del popolo, sarebbe auspicabile».

Dallo scorso mercoledì 25 marzo alle 7 su Rai1 ogni giorno in diretta la Rai trasmette la Santa Messa celebrata da Papa Francesco nella cappella del palazzo di Santa Marta, dove il pontefice vive. È un ulteriore gesto simbolico di Bergoglio, il quale vuole dare la possibilità ai fedeli, impediti a partecipare alla Santa Messa nelle chiese a causa delle misure precauzionali per la salute, di poterla seguire via web o in tv?

«Sì, ed è un dono forte, perché nella sua quotidiana orazione papa Francesco ci sta insegnando ormai da anni una pedagogia della fede e della vita cristiana che è al contempo molto tradizionale e molto innovativa. Sa far parlare il Vangelo in maniera nuova attingendo alla sapienza ignaziana, che vuol dire entrare in quell’episodio biblico e far sì che esso parli per noi oggi. E oggi noi siamo immersi nella paura, nello sgomento, nella sofferenza del distacco dai nostri cari. I numeri dell’audience di queste messe in diretta dicono che la gente apprezza questa vicinanza del pontefice, eccome».

“In questo momento che viviamo l’isolamento imposto, noi ci rendiamo conto di quanto sia necessaria la condivisione. Io spero che questo rimanga”, ha dichiarato Mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo, uno dei centri più colpiti dal virus Covid-19. Secondo il Suo parere come uscirà da questa dura prova la popolazione del Pianeta?

«Spesso con amici via telefono o in famiglia ci interroghiamo: quando tutto sarà finito, come saremo? Come sarà la gente? Torneremo come prima? Oppure anche “peggio”, immergendoci ancora di più nella società del divertimento per “dimenticare” i giorni bui della pandemia? Oppure saremo più responsabili, più attenti alle persone, meno frettolosi, più sinceri, più sobri e meno menefreghisti? Non lo so, lo domando anzitutto di me stesso. Ci è chiesto di essere “mistici”, cioè capaci di vedere dentro le cose il loro senso vero. Saremo all’altezza di questa chiamata?».