Tocca a noi difendere Dio. Vivere la Pasqua in questo tempo

Foto: Etty Hillesum (1914-1943)

Il silenzio di Dio

“Non è il problema della verità che mi preoccupa. Voglio sapere se il punto di vista religioso ha un significato oggi. Trova una risposta, Lurie. Fa’ a pezzi la Bibbia e vedi se è qualcosa di più, oggi, dell’Iliade o dell’Odissea. Trova quella risposta”. Cosi Chaim Potok, il magnifico cantore degli ebrei di Brooklin, in uno dei suoi libri più belli, un vero e proprio romanzo di formazione (In principio, Garzanti).  La questione posta da Potok è risuonata prepotente in questo tempo. Tempo di dolore e di morte, tempo di domande e di grandi interrogazioni. Tempo dove Dio, a molti, è parso muto e lontano.

Un diario pubblicato 40 anni dopo

Ho ripreso in mano il diario di Etty Hillesum (Adelphi) e me lo sono riletto. Per affinare l’ascolto di questo confuso presente, per rendere più attenti gli occhi a scorgere che “c’è una fessura/una crepa in ogni cosa/per questo la luce può penetrarvi” (Leonard Cohen). Non è stata una lettura vana.

Etty ha venticinque anni quando decide di fissare sulle pagine ciò che sta vivendo. All’inizio – siamo nel 1941 – Etty è una giovane donna di Amsterdam, assistente, amante e compagna intellettuale di un uomo molto più vecchio di lei, Julius Spier, psicochirologo di valore. Legge Rilke, Dostoevskij, Jung. E’ ebrea ma non osservante. I temi religiosi la attirano e talvolta ne parla. Poi, a poco a poco, la realtà della persecuzione comincia a infiltrarsi fra le righe del diario. Etty registra le voci su amici scomparsi nei campi di concentramento, uccisi o imprigionati. Avvia un cambiamento profondo su di sé in direzione sempre più spirituale, sebbene laica e aconfessionale. Lavora come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico e ha anche la possibilità di salvarsi ma, consapevole di quanto sta accadendo al suo popolo,  decide di condividerne la sorte. Chiede lei stessa di essere trasferita nel campo di transito di Westerbork dove lavora come assistente sociale. Da lì, con quasi tutta la famiglia, sarà deportata ad Auschwitz. Nessuno di loro sopravviverà.

Una donna che fa i conti con il dramma della storia

“Mio Dio, sono tempi tanto angosciosi. Stanotte per la prima volta ero sveglia al buio con gli occhi che mi bruciavano, davanti a me passavano immagini su immagini di dolore umano». Così annota, nella preghiera della domenica mattina, il 12 luglio 1942. Di fronte al male – che riconosce con lucidità –  Etty non fugge, non guarda dall’altra parte. “Se dico che stanotte sono stata all’inferno, che cosa potete capirne voi?” scrive da Westerbork, dove ogni lunedì arrivava un treno vuoto che ripartiva il mattino seguente carico di donne, uomini, vecchi, bambini, destinati allo sterminio.

Decide di avviare un dialogo sincero con la parte più nascosta di lei. Una discesa nella propria interiorità dove scopre “una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerlo, più sovente essa è coperta da pietre e da sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogno dissotterrarlo di nuovo”. Un confronto serrata con Dio fatto di silenzio e di parole, di ascolto e di attenzione. “La mia vita è un ininterrotto “ascoltare dentro” me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che “ascolto dentro”, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.”

La ragazza che non sapeva inginocchiarsi

Si ritroverà “improvvisamente” in ginocchio. “Ieri sera, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa che era più forte di me. Tempo fa mi ero detta: mi esercito nell’inginocchiarmi. Esitavo ancora troppo davanti a questo gesto che è così intimo come i gesti dell’amore, di cui pure non si può parlare se non si è poeti”.

Etty cambia lo sguardo con cui osserva la vita affaticata di tutti i giorni. “Ti prometto una cosa, mio Dio, soltanto una piccola cosa: cercherò di non appesantire l’oggi con i pesi delle mie preoccupazioni per il domani – ma anche questo richiede una certa esperienza. Ogni giorno ha già la sua parte. Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla”. E decide di fare la sua parte, di assumere il peso della sua responsabilità di fronte al bene da fare e al male da fuggire. Vuole essere “il cuore pensante” della baracca” con una consapevolezza che non abbandonerà mai: “Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi”.

Tocca a noi difendere Dio

Senza saperlo –  ma intuendolo chiaramente . farà propria la convinzione di Emmauel Mounier, cioè che “Dio passa attraverso le ferite” e dunque va custodito e difeso.  “Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”.

Dall’orrore del campo di transito comprende che Dio lo si difende amando e custodendo la fragilità degli altri. “Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì, mio Dio, sembra che tu non possa far molto per modificare le circostanze attuali, ma anch’esse fanno parte di questa vita. Io non chiamo in causa la tua responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili noi. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi». Etty non è ingenua e sa leggere le reazioni sconsiderate di tanti di fronte al dolore imperante: “Esistono persone che all’ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo aspirapolveri, forchette e cucchiai d’argento – invece di salvare te, mio Dio. E altre persone, che sono ormai ridotte a semplici ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle tue braccia».

Non mi dimenticherò che mi hai tenuto tra le braccia

Come nel salmo 131 riletto magnificamente da Giusy Quarenghi:

Non ho alzato lo sguardo
da prepotente
Non ho creduto di essere chissà chi
conosco i miei limiti, li ho accettati
E il mio cuore è in pace
come un piccolo in braccio alla mamma
Sto bene nella mia pelle
come un fiume nel suo letto
Sto bene in braccio a te
e la mia anima è serena e quieta
come un piccolo appena allattato
Non dimenticherò
che mi hai tenuto tra le braccia
che mi hai portato in braccio

Pasqua, un nuovo inizio, un nuovo sguardo

Nel suo ultimo biglietto raccolto dal vento su quel treno per Auschwitz Etty scriveva: “Abbiamo lasciato il campo cantando […] Viaggeremo per tre giorni”. Come scrive Cominelli, può sembrare forse irriverente, ma anch’io in questo giovedì che apre la Settimana Santa, non riesco a non pensare a questi tre giorni come ai tre giorni di Cristo in attesa della grande festa della Risurrezione. Anche noi siamo destinati a questa grande festa, come diceva stupendamente Dostoevskij in un testo che, molto probabilmente, ha letto anche Etty:

Se cacceremo Cristo dalla terra, noi lo incontreremo sottoterra!  E allora noi, gli uomini del sottosuolo intoneremo nelle viscere della terra un inno tragico al Dio della gioia.

Che sia, nonostante il dolore e i lutti di queste settimane, una Pasqua di Resurrezione per tutti. Un nuovo inizio, un nuovo sguardo. Perché, ce lo ricordava Dietrich Bonhoeffer dal campo di Tegel, “Dio non esaudisce i nostri desideri ma realizza le sue promesse.” Nonostante tutto. Auguri di cuore.