In memoria di don Francesco Orsini, testimone credibile del Vangelo

Foto: una foto recente di don Francesco Orsini, con un confratello africano

Nel Libro della giungla di Rudyard Kipling, il cucciolo d’uomo Mowgli riesce a vincere l’arrogante, cattiva tigre Shere Khan con il fiore rosso, il fuoco, un tizzone ardente. Il passaggio, di generazione in generazione, del tizzone ardente, del fuoco della fede, del fuoco interiore, è la strada, il cammino del popolo di Dio, da Abramo a oggi. Non è la potenza delle pietre dei templi, la forza delle istituzioni umane, ad assicurare al popolo di Dio il suo avvenire, ma il passaggio di generazione in generazione, da persona a persona, di questo tizzone ardente, del fiore rosso della testimonianza. Dal mattino di Pasqua in poi la vicenda cristiana è tutta qui, nell’incontro con persone credibili che rendono il Vangelo una buona notizia, qualcosa di bello per cui spendere la vita. Perché la fede si trasmette per attrazione, in nessun altro modo.

Un “orso” capace di indicare la direzione di una vita piena

Tra i testimoni credibili che hanno formato la mia fede trova senz’altro posto don Francesco Orsini, morto la sera del giorno di Pasqua, in un ospedale di Abidjan, la capitale della Costa d’Avorio. Era stato ricoverato d’urgenza un paio di giorni prima in seguito alle complicazione seguite ad una impegnativa operazione chirurgica. Don Francesco, per tutti “il don”, dagli Spiazzi di Gromo, nasce già orfano di padre. Viene cresciuto da una madre forte, lavoratrice infaticabile, donna arguta, impastata di terra, una di quelle donne così ben tratteggiate dal libro del Siracide.

Francesco viene formato alla scuola della vita, quella della gente della sua montagna, una vita dura senza sconti. Quel suo essere “montagnino” non se lo scrollerà mai di dosso. Poche parole, un’intelligenza pratica e intuitiva, uno sguardo che va subito al cuore. Certo, piuttosto burbero, quasi sulle sue, “orso” – si diceva – per non smentire il suo nobile cognome, “Orsini”, di cui andava fiero… Ma pure montagnina era la sua amicizia: severa, senza fronzoli, profonda, duratura e – a dispetto delle apparenze – piena di affetto.

Prete in oratorio, prima a Ponte Nossa e poi, nel 1978,  da noi a Paladina. Uno tsunami in nome del Vangelo. Tre anni bastano per segnare un’intera generazione. Il ’68 è ancora vivo: movimenti, gruppi, ricerca di nuovi modi di essere Chiesa, di leggere e vivere il Vangelo. Don Francesco si sente perfettamente a suo agio. La sua non era mai una parola compiacente, piuttosto una parola esigente: si potrebbe dire profetica. Una parola che riconduce alla serietà cristiana da vivere dentro la vita. Il Vangelo parla chiaro: la vita è cosa troppo seria per sprecarla e non, invece, donarla. E così era anche la sua predicazione: non troppi ragionamenti, ma una parola ferma, decisa e forte com’era la sua voce e la sua testimonianza di un Vangelo “sine glossa” che tanto ha affascinato (e provocato per tutta la vita) me e il gruppo di amici. Una vita povera ed essenziale: nella casa senza riscaldamento, nel vestito, sempre quello e un po’ trasandato…

Eppure don Francesco è stato capace di porre gesti che lasceranno il segno. A Ponte Nossa è il primo a Bergamo a promuovere il servizio civile tra i giovani. Lo stesso farà quando sarà trasferito a Paladina. Una scelta di campo per la nonviolenza che per lui, voleva dire, anzitutto, pagare di persona, mettendosi a fianco chi di faceva più fatica. E poi, sempre a Paladina,  molti ricordano ancora un incontro con don Luigi Ciotti, allora non ancora famoso. Per dire una Chiesa dentro le povertà, una testimonianza concreta e fattiva, una Chiesa in frontiera, che sente odore di pecore, già quarant’anni fa, prima che papa Francesco lo ponesse a monito a tutti. Dopo la morte della mamma, la partenza per la Svizzera, a Yverdon, non lontano dal lago di Neuchatel. Un primo passo verso i più poveri forse sulle orme delle centinaia di emigranti che dalle sue valli hanno dovuto attraversare le frontiere. Una condivisione reale, anche d’estate, quando con la macchina partiva per la Campania, la Calabria, la Sicilia a trovare le famiglie, per dare un gesto ulteriore di vicinanza. Nel 1989 la scelta dell’Africa: l’ultimo approdo verso un’incarnazione portata all’estremo.

In Africa è finita la sua ricerca durata una vita

Per noi amici era un piacere incontrarlo. Ci piaceva ascoltarlo e stuzzicarlo, da “occidentali”, perchè cogliesse il valore della mediazione culturale, della complessità  mentre lui, invece, aveva scelto un’altra strada: quella della radicalità di vita fino alla consumazione di sé e della semplicità evangelica. La stessa che ritrovava in molte persone che incontrava nei villaggi, nei laici che coinvolgeva nell’azione pastorale, nel clero locale che faticosamente sta emergendo in terra africana. La sua è stata per noi tutti una testimonianza gioiosa. Comprendevamo che in quella terra dove oggi è sepolto era la sua casa, povero con i poveri: lì era finita la sua ricerca. Lontana da quel cristianesimo “borghese”, come lo chiamava lui, che troppo spesso in nome della mediazione rischia di diventare compromesso. Lontano da una fede che non porta a scegliere con la vita, che parla di poveri ma che poco fa per dare loro parola e dignità. Molti di noi hanno cercato di custodire per tutta la vita le sue provocazioni. Hanno tentato di raccogliere il tizzone ardente, il fiore rosso della sua testimonianza.  Anche nelle ultime settimane, quando lo si sentiva spesso al telefono con whatsapp, mai gli è venuta meno la fiducia in quel Dio affidabile, più forte della morte, di cui ci parlava quando eravamo adolescenti e giovani.

Come ha scritto un’amica, “avremmo tanto voluto abbracciarlo ancora una volta, invece è stato abbracciato da Qualcuno che l’ha sempre amato. Ciao Don”.