“Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte, la vita è puro rumore tra due insondabili silenzi” scrive Isabel Allende. Abbiamo acquisito durante la quarantena per il coronavirus molta dimestichezza con i silenzi di cui parla la scrittrice sudamericana ma anche con altri, del tutto nuovi. Prima di tutto tra le mura di casa, dove si sono creati alcuni vuoti per le persone che non possiamo più accogliere (i parenti, gli amici) e altri per i nostri cari che non ci sono più.
Abbiamo osservato poi silenzi pieni d’inquietudine “fuori”, nelle strade deserte, le piazze spopolate, i negozi e le aziende chiuse. Ma in realtà abbiamo trovato silenzio dentro di noi solo quando, sopraffatti, abbiamo messo a tacere il “puro rumore” di fondo delle connessioni continue e delle informazioni martellanti.
Il 4 marzo si aprirà la fase della “danza”
In questo silenzio ci siamo allenati ad ascoltare di più, ad affinare la nostra sensibilità ad altre presenze, animate e inanimate (creando anche, forse, spazi spirituali). Ora alcuni esperti hanno chiamato in modo suggestivo la nuova fase che si aprirà il 4 maggio “una danza”. Un’immagine leggiadra che si riferisce però a una realtà “cruda”, difficile da accettare. Allude al fatto che – in attesa del vaccino o di nuove altre scoperte che potrebbero risolvere la situazione – il distanziamento sociale continuerà. Ci sarà una riapertura graduale a tappe, seguita (probabilmente) da nuove chiusure. Bisognerà adeguare i ritmi e l’intensità delle attività economiche e sociali all’andamento dei contagi. E’ un andamento che probabilmente seguirà onde alternate, allo stato attuale, purtroppo, in modo ancora casuale e solo in parte prevedibile.
Una danza, nell’immaginario collettivo, richiede che ci si muova seguendo una melodia: i nostri direttori d’orchestra stanno ancora scrivendo la partitura. Questa condizione non ci piace, ne leggiamo tutta la fragilità, ci innervosisce, ci riempie – a volte – di rabbia e frustrazione. Noi vorremmo soprattutto certezze: se dobbiamo ricominciare a ballare vorremmo conoscere i passi e sapere dove mettere i piedi.
Abbiamo già pagato un prezzo molto alto
Sentiamo di aver già pagato un prezzo fin troppo alto dal punto di vista personale, affettivo e comunitario – quantificabile in vite umane – oltre che economico. Le conseguenze sono già, per molti, drammatiche. Quando rimetteremo il naso fuori sarà come se scorticati, senza pelle, con le nostre ferite esposte, ripetessimo l’esperienza della nascita. Gabriel Garcia Marquez ha scritto che “Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma la vita li costringe ancora molte volte a partorirsi da sé”. Noi questa volta verremo a un mondo molto diverso da “prima”, a relazioni da reinventare, ad abitudini da ricostruire, a scenari che troveremo profondamente cambiati mentre noi stavamo “fermi”. Sarà difficile, come le esperienze di gravidanza e di parto che raccontiamo nel dossier di questa settimana.
L’esperienza di nascere di nuovo
Eppure potremmo anche trovarci qualcosa di bello, di nuovo, esercitando (come sociologi, filosofi e gli stessi scienziati suggeriscono) responsabilità, prudenza, una diversa sensibilità sociale ed ecologica, il buon senso e la saggezza che in fondo fanno parte del nostro patrimonio personale e comunitario. Le mamme che abbiamo intervistato raccontano di aver riscoperto che cosa è essenziale, che cosa conta davvero, attraverso esperienze particolarmente dure, sperimentando la paura, il dolore, la fragilità, trovandosi, perfino, a un passo dalla morte.
Siamo stati rinchiusi, ci siamo anche persi, tra noi e in noi, ci siamo sentiti e ci sentiamo molto deboli e feriti. Adesso ci tocca trovare il coraggio di ri-nascere, di far emergere le nostre doti di resilienza, di continuare a regalare – come stanno facendo già migliaia di volontari – la forza che abbiamo in più a chi ne ha bisogno. Ci facciamo aiutare da un verso di George Eliot: “teniamo quello che vale la pena di tenere e poi, con il fiato della gentilezza soffiamo via il resto”. Arrendersi, più di tutto, è vietato.
Foto di Giovanni Diffidenti