Fase 2: come imparare a tenersi per mano senza toccarsi. Farsi guidare dalla speranza, non dalla paura

Anche le mani, non solo gli occhi, sono un riflesso dell’anima. Quante storie raccontano le pieghe dei palmi, i segni sulle dita, la pelle ispessita delle nocche. Aumentano col tempo che passa. Lavoro, fatica, impegno: ogni gesto lascia una traccia, incide sulla loro forma, crea rilievi, affossamenti, risacche, luoghi dove si annidano luci e ombre. Tanti gesti significativi passano attraverso le mani: prima della pandemia ce le stringevamo per salutarci, e nella forza di questo gesto leggevamo il carattere e le intenzioni di chi lo compiva.
Prendersi per mano, poi, è un gesto lieve e pieno di tenerezza: “Mantenersi – scrive Erri De Luca – tenersi per mano. Ti può bastare per la vita intera, un attimo, un incontro. Rinunciarvi è folle, sempre e comunque”.

Eppure dal 4 maggio, quando torneremo – poco per volta – a rivederci, questi gesti ci saranno ancora negati. Soprattutto, è un paradosso, con le persone a cui vogliamo più bene, quelle che negli ultimi due mesi hanno avuto con noi un contatto rarefatto, affidato ai pixel di uno schermo. Le persone più vulnerabili – anziani malati e immunodepressi – perché sono più esposti ai rischi del coronavirus.

Vulnerabili, in realtà, lo siamo tutti. Forse non abbiamo ancora compreso a fondo che proprio in questi piccoli particolari si cela una frattura più netta e profonda tra due mondi, quello di “prima,” che comunque, sotto molti aspetti, non ci piaceva, ma ci dava alcune, forse illusorie, sicurezze e quello del “dopo” segnato dalla distanza e dall’incertezza, in ogni campo. Una frattura esistenziale, culturale, sociale, economica. Non siamo ancora riusciti, come singoli e come collettività, a prenderne pienamente coscienza, e quindi ad agire di conseguenza.

Quello che chiedono, sottovoce, le persone più vulnerabili, e in particolare gli anziani, è di poter vivere: “Non possiamo sparire – dicono -, annullarci, vivere segregati in attesa che il pericolo passi”. Il lockdown gli ha già rubato due mesi. Chi ha alle spalle un percorso più lungo dà più valore al tempo, alla qualità, non solo alla quantità. Come possiamo conciliare adesso questi due aspetti? Garantire protezione, ma senza somministrare il veleno dell’impossibilità, della paura, della solitudine a oltranza? Persone prima perfettamente autosufficienti e ancora in gamba si sono ritrovate a dover contare sull’aiuto e sull’assistenza dei volontari per gesti semplici come la spesa. Non è un passo facile per chi è abituato all’indipendenza, e su questo basa la possibilità di sentirsi ancora attivo. Molti di loro prima erano i volontari, sempre presenti, le colonne delle comunità. Moltissimi aiutavano i figli e accudivano i nipoti. Chi non ha perso la vita, ha comunque dovuto mettere in stand-by la propria identità e il proprio ruolo. I nostri anziani portano sulle spalle il peso del dolore, dei tanti lutti, ma anche della stasi, che è come una ferita aperta. Era inevitabile, lo sappiamo, ma è giusto rifletterci su, ora che l’emergenza lascia un maggiore spazio d’azione, o quantomeno di pensiero.

E’ circolato un post commovente, in questi giorni, che ritraeva un nonno intento a giocare a scacchi con il nipotino, seduti uno di fronte all’altro, a un metro e mezzo di distanza, con guanti e mascherina. Anziani e bambini: sono entrambi spariti dai radar, diversamente isolati. Non possiamo trascurare questi aspetti: la reclusione volontaria non può essere l’unica risposta. In attesa di una soluzione più sicura, come un vaccino, che però, dicono gli esperti, richiederà tempi lunghi, bisogna pure mettere in atto altre risorse, inventare qualcosa che possa quantomeno temperare la situazione.

In questo clima generale – lo hanno rivelato anche le polemiche degli ultimi giorni – potremmo essere portati, nella dimensione privata e in quella pubblica, verso un’eccessivo desiderio di “trasgressione”, perché dopo due mesi siamo esausti, feriti, addolorati e ne abbiamo bisogno. Vogliamo uscire, lavorare, vivere la vita di sempre e ritrovare tutto come prima. Ma sappiamo che non si può.

Potremmo anche, all’opposto, peccare di rigidità e distanza: nasconderci dietro le mascherine, dietro gli egoismi, acuiti dalle difficoltà, e rinunciare in partenza a qualunque apertura. Rinunciare, per esempio, all’ascolto e alla comprensione di opinioni e idee diverse per continuare a coltivare la lontananza, chiudendoci in noi stessi, perché pare l’unica strada, attualmente, per salvarsi.

Il mondo non concede – neanche in questi tempi di emergenza – alcuna semplificazione, semmai aumenta i livelli di complessità da affrontare, a cerchi concentrici. Si parte dalla dimensione privata e intra-familiare, i famosi rapporti con i “congiunti”, per arrivare a quella sociale, professionale, economica, politica, fino ai rapporti fra gli Stati e agli equilibri mondiali. Questi livelli, come ci ha chiarito la pandemia, sono tutti interdipendenti, l’esperienza di questo lockdown planetario in fondo ci ha dimostrato che per mandarli all’aria basta qualcosa di molto piccolo come un virus: qualcosa che possiamo trasportare con le nostre mani.

La cosa più difficile, adesso, nella fase 2, sarà trasformare la consapevolezza della fragilità in un punto di forza, pensare che nelle nostre mani c’è anche la chiave di volta della crisi. Non esistono soluzioni precostituite, ma questo potrebbe essere un bene. Mi è capitata sotto gli occhi, in questi giorni, una frase pronunziata da Nelson Mandela quando divenne presidente e dovette occuparsi della ricostruzione del suo Paese, il Sudafrica, dilaniato dal rancore, dalle divisioni, dalla guerra civile: si dedicò a un’appassionata opera di tessitura per ricostruire le relazioni e soprattutto per creare nuove strade di riconciliazione e perdono. Mandela dice: “Possano le tue scelte riflettere le tue speranze, non le tue paure”. Le paure distruggono, cancellano, chiudono, le speranze aprono e costruiscono, trovano mezzi anche dove apparentemente non ce ne sono, anche quando tutto intorno sembra crollare. Ora tocca a noi avere fede, pensiamo insieme a quanti modi esistono per tenersi per mano, per continuare a tenere per mano le persone più vulnerabili – anziani, malati, quelli che con la crisi hanno perso tutto – anche senza toccarsi.