Federico Bertoni: “La teledidattica all’Università? C’è il rischio che accentui le disuguaglianze sociali”

È iniziata la Fase 2 della pandemia, quella della ripartenza che ha riguardato la parziale riapertura di fabbriche, uffici e alcuni negozi. Quasi quattro milioni di italiani sono ritornati a lavorare.

E la scuola? Cosa accadrà dopo l’emergenza, nel caso in cui scuole e università decidano di cogliere l’opportunità di continuare, anche magari parzialmente, l’insegnamento online?

Di questo e di altro parliamo con Federico Bertoni, il quale insegna Teoria della letteratura all’Università di Bologna, è stato presidente dell’Associazione di Teoria e storia comparata della letteratura (Compalit), è membro della Giuria dei letterati del Premio Campiello, e ha scritto “Insegnare (e vivere) ai tempi del virus” (Nottetempo 2020, Collana “Semi” 2020, pp. 46, ebook gratuito), un piccolo saggio dedicato alle scuole e all’università, che stanno vivendo una vera e propria emergenza didattica causata dal Covid-19.

Professore, da settimane sta facendo lezione guardando una webcam “declamando nel vuoto di un vecchio dipartimento deserto”. Dal punto di vista personale, che tipo di esperienza è la teledidattica?

«È stata un’esperienza un po’ contrastata, il tutto complicato dall’emergenza Coronavirus, quindi c’è stato anche l’aspetto emotivo difficile da gestire. Esperienza contrastata, perché da una parte è stata un’enorme risorsa per tutti noi il fatto di poter comunque lavorare, poter tenere il contatto con gli studenti. C’è stato uno stop di un paio di settimane e poi abbiamo ricominciato con la teledidattica. Gli studenti erano contenti, hanno partecipato e seguito, quindi ha avuto anche la funzione di tenerli insieme, facendoli sentire, nonostante tutto, ancora comunità universitaria. Dall’altra parte la teledidattica ha un aspetto un po’ alienante, alla lunga si perde un po’ il senso, e tutto diventata automatico, meccanico e si comincia a riflettere sulle cose che non vanno, passato l’entusiasmo. All’inizio quando è partita la didattica a distanza, il mio ateneo aveva imposto che si facesse dalle aule, questo prima del lockdown, quando c’era ancora una relativa libertà di movimento. Poi progressivamente con l’escalation del contagio e delle restrizioni, la teledidattica è diventata opzionale, chi viveva fuori Bologna era obbligato. Il mio dipartimento è sempre rimasto aperto per tutti quei docenti che avessero voluto fare ricerca o per ragioni di lavoro. Ho lavorato lì fino all’ultimo, poi quando è iniziato il lockdown ho deciso di organizzarmi da casa. Adesso sto tornando all’Università ma sempre con le precauzioni del caso».

Insegnamenti attivati all’81%, studenti raggiunti per l’80%, 71.000 esami, 26.000 lauree. In questi due mesi, quel che docenti, tecnici e amministrativi delle università italiane sono riusciti a fare in questa emergenza ha del miracoloso?

«Sì è stato un notevolissimo risultato, questi sono i dati che il Ministro dell’Università Gaetano Manfredi ha presentato in un’audizione alla Commissione Cultura della Camera dei Deputati lo scorso 9 aprile, quindi ora i dati sono aumentati ulteriormente. C’è una cosa che stupisce meno e che l’opinione pubblica non sa: si parla tanto di innovazione didattica, dell’uso delle nuove tecnologie stimolate da questa emergenza, in realtà, come dico sempre, i docenti universitari usano da anni le tecnologie a tutti i livelli, facciamo tutte le funzioni. Quelle amministrative e in gran parte anche quelle didattiche passano dalla rete. Quindi la competenza è molto ampia e diffusa e questo spiega come in circa dieci giorni tutti si sono attrezzati e sono riusciti a fare questo passaggio. Grande lavoro e buona volontà da parte di tutti, ma la competenza era consolidata. Si trattava di imparare ad usare dei nuovi applicativi».

In tutto questo c’è un ma: quali sono i maggiori rischi della didattica a distanza e che cosa risponde a chi afferma che la didattica on line sarà il futuro?

«C’è un impoverimento dell’esperienza didattica, è una cosa evidente, non è una verità rivelata, c’è un’esperienza di millenni che testimonia che la didattica in presenza è meglio di qualsiasi altra forma. La presenza fisica di insegnanti e allievi, la condivisione, l’ascolto, il dialogo sono cose che funzionano meglio così. Gli altri rischi sono di tipo politico ed economico, la maggior parte sono in buona fede, ma ci sono molte persone che pensano che la teledidattica potrà essere un affare, una partita da sfruttare in termini economici. Si prospetta una forma “mista”, una parte in presenza e una parte a distanza, che avrà una funzione negativa a livello sociale, creando una differenziazione tra tipologie di studenti, limitando le opportunità. Una fascia di studenti più privilegiati potrà venire in aula e potrà frequentare una facoltà universitaria fuori sede, mentre ci sarà qualche ragazzo/a che studierà davanti al suo computer nel proprio paese, che si trova in una zona disagiata, senza avere l’opportunità di vedere qualcos’altro. A lungo termine questo è il rischio principale. Ad avvalorare questa ipotesi che speriamo venga smentita, ma gli indizi ci sono, è il fatto che questa è la tendenza che l’Università ha preso da almeno quindici anni in Italia, negli altri Paesi da più tempo. C’è una tendenza a differenziare sia le Università sia naturalmente gli studenti che le frequentano. Lo si vede dai dati, nell’ultimo decennio le tasse universitarie sono notevolmente cresciute, le politiche per il diritto allo studio sono del tutto insufficienti, le borse di studio sono calate. Siamo in un momento, come sanno tutti, che le disuguaglianze sociali stanno crescendo e questa crisi che stiamo vivendo le accentuerà ancora di più».

Qualcuno, secondo lei, pensa di poter trasformare questa tragica emergenza in una sperimentazione forzata?

«Non voglio fare il processo alle intenzioni, ma c’è la sensazione che qualcuno voglia approfittarne, in alcuni casi in buona fede, in altri casi un pochino meno. Non si tratta di individuare il colpevole o di fare nomi, ma si tratta semplicemente di additare un atteggiamento generale, che può essere, secondo me, negativo».

Nel saggio indica anche spunti di mobilitazione per evitare che università e scuola si trasformino in un ascensore sociale al contrario, perché la didattica a distanza è solo un’opzione emergenziale, che non può risolvere i problemi endemici che affiggono il mondo della scuola da decenni. Ce ne vuole parlare?

«La teledidattica è stata utilissima in questa fase, è stata una soluzione di emergenza, vedremo come evolverà la situazione sanitaria, cosa che nessuno di noi sa. Però, quando si tornerà prima o poi a una qualche normalità, chiediamo che si torni a una didattica in presenza, che sia la norma e che non diventi un privilegio solo per alcuni. Dobbiamo difendere i beni comuni che sono stati conquistati e non vengono dal nulla, come la scuola, l’università e la sanità, beni non alienabili, che devono essere governati e gestiti in modo oculato, senza dissipare e che non possono essere assimilati a profitto o a beni privati. L’istruzione, la scuola e l’università vengono sempre messi all’ultimo gradino, come si vede anche adesso, però quello che è successo con la sanità in questi mesi dimostra a tutti in modo tragico quanto sia importante investire e tutelare questi beni comuni».