George Floyd, gli Stati Uniti e il razzismo. Una riflessione profonda – Intervista a Paolo Barcella, prof. di Storia dell’America del nord e di Storia contemporanea

Lo scorso 25 maggio, George Floyd, afroamericano di 46 anni, è morto a Minneapolis, dopo che un poliziotto (Derek Michael Chauvin) gli ha tenuto il ginocchio premuto sul collo per più di otto minuti (senza che gli altri agenti facessero nulla per fermarlo).

«I can’t breathe» («Non riesco a respirare»), ha ripetuto, Floyd, più volte, prima di perdere i sensi. La scena, ripresa da diversi passanti, è stata poi diffusa sui social, generando violente proteste negli Stati Uniti e profondo sdegno in tutto il mondo, fino a che, circa una settimana fa, il consiglio comunale di Minneapolis ha deciso di smantellare il proprio dipartimento di polizia, così da creare un nuovo modello di sicurezza pubblica.

Secondo Paolo Barcella, professore di Storia dell’America del nord e di Storia contemporanea, presso l’Università degli Studi di Bergamo, quello subito da George Floyd è l’ultimo di una serie di abusi, a sfondo razziale, che la comunità nera sconta fin dalla creazione delle prime colonie britanniche nel nord America e che, proprio per questo motivo, è strettamente legato ai fenomeni socioculturali e politico-economici che, da sempre, animano la nazione a stelle e strisce.

Professor Barcella, secondo uno studio del Proceedings of the National Academy of Science of the United States of America, periodico ufficiale della National Academy of Sciences (NAS), essere uccisi durante un arresto rappresenta, negli Stati Uniti, la sesta causa di morte per gli uomini di età compresa fra i 25 e i 29 anni. Secondo i dati dell’FBI, su mille morti, provocate, ogni anno, dagli agenti di polizia, sono meno di 500 quelle “giustificate”. Inoltre, per il sito mappingpoliceviolence.org, il 99% degli agenti, che viene accusato o condannato per questi episodi, non riporta accuse penali. Si evince una falla all’interno degli assetti democratici degli organi di polizia americana?


«Per analizzare questi dati in modo corretto, occorre prendere in considerazione due aspetti fondamentali: la diffusione delle armi negli Stati Uniti (e la sua conseguenza sul sistema in generale) e la cultura della polizia statunitense (o, per meglio dire, delle polizie, dato che si sta parlando di uno stato federale), ovvero quell’insieme di atteggiamenti, norme, pratiche e modalità procedurali che le istituzioni trasmettono ai poliziotti. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna ricordare come tra i cittadini statunitensi siano diffuse 300 milioni di armi: all’incirca, un’arma per ogni persona. Ovviamente, la disponibilità di armi produce, nel Paese, un alto tasso di violenza, sociale e diffusa. La mortalità causata dalle armi da fuoco è infatti impressionante: ogni anno, muoiono 30 mila persone (di cui circa 7 minori al giorno). È come se, in Italia, ne morissero 6 mila e, invece, annualmente, ne muoiono poche centinaia. Ma è logico: una società più armata è una società più violenta, che genera le condizioni per le quali pure la polizia sia più armata e violenta: durante le operazioni, i poliziotti sono portati, maggiormente, a “giocare d’anticipo”, essendo alto il rischio che chi si trovano di fronte sia armato. Gli Stati Uniti, inoltre, mostrano un sistema di sicurezza complesso, ipertrofico, in cui i margini di azione sono più alti. Le polizie statunitensi sono diverse da quelle europee. La polizia italiana, per esempio, basa il proprio lavoro sulla prevenzione, l’intelligence, la mappatura e il controllo del territorio. La polizia americana – mi si passi la semplificazione – è più “sceriffesca” ed abituata a intervenire sul problema solo quando esso si manifesta violentemente. È qualcosa che ha a che fare con la storia degli americani, con la storia della conquista dell’Ovest. Un contesto del genere, in cui la violenza è tollerata e accettata, spinge alcuni agenti a sentirsi giustificati e legittimati a comportarsi in modo barbaro e brutale».


Rispetto ai bianchi, gli uomini afroamericani sono 2,5 volte più a rischio di essere uccisi dalla polizia. Perché?


«Perché il poliziotto pensa che il nero sia armato e, perciò, gioca d’anticipo. È frutto di uno stereotipo razziale, innervato, ovviamente, da pregiudizi culturali e socioeconomici. Certo, è vero che molti afroamericani vivono in condizioni di inedia e in contesti degradanti, ma tutto ciò può essere definita una colpa? E, soprattutto, da cosa è determinata questa situazione? Si dice che l’America sia la terra delle libertà, ma se sei figlio o nipote di gente che solo a partire da metà degli anni Sessanta si è liberata dalla segregazione razziale, come puoi, in una nazione in cui pure l’istruzione e la sanità hanno un costo altissimo, usufruire della libertà? Non hai gli strumenti».

Non solo neri, ma anche nativi, ispanici, italiani, irlandesi, polacchi e cattolici in generale: il razzismo, negli Stati Uniti, è un problema atavico che, in passato, ha colpito anche altre minoranze, ree di non appartenere al gruppo dominante “WASP” (White Anglo-Saxon Protestant). Perché?


«È complesso dire perché. Quel che, però, posso affermare è che la questione razziale, negli Stati Uniti, merita di essere trattata per quello che è: per l’appunto, una questione razziale. Certo, convenienze politiche ed economiche hanno giocato (e tutt’ora giocano) un ruolo fondamentale, ma il razzismo americano affonda le proprie radici nel suprematismo bianco e nella volontà di legittimare la schiavitù. La schiavitù arriva nelle colonie inglesi nel 1619, dodici anni dopo la creazione della prima colonia (quella di Jamestown, fondata nel 1607). Per quasi 200 anni, viene tenuta in funzione una tratta di schiavi che, dall’Africa, porta in nord America centinaia di migliaia di uomini e donne, in condizioni disumane. Essere schiavi in Africa significava essere l’ultimo fra gli uomini, ma essere schiavi in America significava essere considerato un sub-umano e trasformato in strumento di lavoro, così da assecondare la volontà del proprio padrone. A inizio Ottocento, la tratta viene chiusa, ma negli Stati Uniti continua ad esistere la schiavitù, poiché i bianchi spingono i neri a riprodursi fra di loro e stabiliscono, per legge, che la schiavitù è condizione ereditaria: chi nasce da una donna schiava, è schiavo. La schiavitù finisce con la fine della guerra civile (1861-1865), ma il sistema di segregazione razziale viene subito ripristinato negli stati del Sud degli Stati Uniti. L’apartheid tiene la popolazione afroamericana fuori dalla vita pubblica e crea le condizioni per le quali, per essa, valgono delle modalità di trattamento che non valgono per nessun altro, come la pratica del linciaggio. Il linciaggio consisteva nel legittimare l’omicidio di persone afroamericane (uomini o donne), se le si riteneva responsabili di un crimine violento. La popolazione del quartiere prelevava con la forza l’afroamericano dalla prigione, per poi pestarlo, impiccarlo a un albero e dargli fuoco. Parliamo di usanze che, ancora, venivano eseguite a inizio Novecento. A partire dagli anni Cinquanta, grazie al Movimento per i diritti civili, si esce dalla segregazione: un processo lungo e complesso, che dura più di dieci anni. Ma, evidentemente, dopo tutti questi anni, il pregiudizio verso il nero non è terminato: se si è abituati a pensare che il nero puzza, delinque e stupra è difficile, poi, toglierselo dalla testa. Il sociologo Du Bois afferma come negli Usa ci sia una linea del colore (rappresentazione simbolica della gerarchia sociale): in cima ci sta il bianco (portatore di tutte le virtù), in fondo il nero (portatore di tutti i vizi). In mezzo, gli immigrati che, da principio, vengono considerati più simili ai neri che ai bianchi. Poi, man, mano che si integrano, vengono riconosciuti più bianchi. Ciò che risulta interessante è che l’afroamericano non risale mai verso il bianco, a differenza, per esempio, di italiani e irlandesi (pure loro, all’inizio, considerati tagliagole e stupratori), che, alla fine, sono stati considerati, in tutto e per tutto, americani».


Se i cittadini non avessero potuto vedere i filmati effettuati, forse, la morte di George Floyd sarebbe rimasta ignorata. La tecnologia può diventare custode della trasparenza, della democrazia e del diritto?


«Tema controverso e scivoloso, bisogna fare attenzione alle controindicazioni. Certo, in questo caso, il fatto di avere avuto a disposizione un video è stato utile, ma la tecnologia ha il potere di invadere (e controllare) il nostro spazio privato e ciò può diventare un problema. La tecnologia, se introdotta, va regolamentata. È un’ingenuità pensare che la tecnologia sia politicamente neutra».


Qual è la soluzione al razzismo negli Stati Uniti?


«Moderare i toni e calibrare il linguaggio (anziché gettare benzina sul fuoco), credo non guasterebbe, soprattutto da parte di chi ricopre ruoli pubblici e istituzionali. Non sto parlando del politicamente corretto (che crea spesso cortocircuiti psicotici), ma di educazione e responsabilità. Ma non basterebbe. Sarebbe necessario, invece, ripartire dalle scuole, formando le persone alla complessità, alla riflessione e al pensiero critico, abbattendo quella modalità che schematizza (e banalizza) il rapporto fra bianchi e neri, così da comprendere come mai, certe idee ambigue, riscuotano le simpatie di chi “redneck” non è, di chi cerca una risposta semplice a problemi che semplici non sono. E poi, ovviamente, ci sarebbe da ripensare tutta la politica economica e fiscale e l’idea del ruolo dello stato: chiedersi se l’istruzione e la sanità, intese come gratuite e universali, debbano essere difese oppure no. Insomma, servirebbe una dialettica funzionale fra azione culturale e azione politica. Quel che è certo, è che non possiamo pensare di fare anti-razzismo semplicemente invitando le persone ad essere più buone».