Da lui non faccio la comunione

La mirabile semplicità della ‘santa cena’

La solennità del Corpus Domini mi ha dato da riflettere, molto. Penso alla grandezza di Dio che ha scelto di darsi a noi nelle specie di un alimento e una bevanda che caratterizzano la nostra tavola. Penso a come l’eterno entri nel quotidiano. Penso a come la bellezza di un pasto tra amici diventi, nella cena alla quale il Signore ci invita, la possibilità di pregustare la gioia di quello che noi cristiani chiamiamo il Paradiso, ossia l’eternità vissuta alla presenza di Dio, nella pienezza della relazione con Lui e con coloro che amiamo e ci hanno preceduto nell’ultimo viaggio.

‘Ricevo la comunione’

Nel contempo, però, penso anche, spero giustamente, a quanto ciascuno di noi e le nostre comunità debbano ancora camminare per superare quegli atteggiamenti che, sebbene non ce ne accorgiamo (o meglio, non vogliamo accorgercene), costituiscono palesi contraddizioni di quanto celebriamo durante le nostre liturgie. In conclusione dell’omelia, dopo aver ricollegato la solennità del Corpus Domini a quella della settimana precedente della Santissima Trinità, mostrando come Dio che è Amore non ha amato soltanto a parole, ma si è fatto carne, corpo spezzato sulla croce per la nostra salvezza, ho voluto consegnare alla mie comunità un compito.

Il compito consisteva nel riflettere su queste due espressioni, splendide nella loro semplicità, che utilizziamo per descrivere il nostro ricevere l’Eucarestia durante la Messa. La prima espressione è “ricevo la comunione”. Questa espressione mi sembra sottolinei due elementi importanti in gioco: il donatore e colui che riceve il dono. Il donatore, colui dal quale riceviamo l’Eucarestia, è Dio stesso che vuole donarsi a noi non come alimento dei perfetti ma come cibo dei peccatori, come papa Francesco sottolineava già in “Evangelii Gaudium”. Questo significa, per noi che riceviamo il dono, allora, almeno due cose. La prima è che, come ogni ricezione, occorre la mia volontà: devo volere ciò che ricevo. Non solo, devo riceverlo con fede.

Questo contrasta in modo evidente con certe rigidità che ci caratterizzano, che possono diventare veri e propri oltraggi alla stessa Eucarestia che riceviamo. Mi riferisco ad esempio a quelle scene in cui si vedono le persone cambiare fila per ricevere dal sacerdote la comunione eucaristica.

Mi procurano un enorme dispiacere questi episodi. Che differenza hanno le mia mani da quelle di un laico che ha ricevuto dalla Chiesa il mandato di distribuire l’Eucarestia? Non sono forse le mie mani, esattamente come le sue, prestate a Dio che vuole donarsi all’uomo in quel pane?

Le antipatie che inquinano l’Eucarestia

Lo stesso vale, ma qui la situazione si aggrava, per tutte le antipatie, quando non l’odio manifesto, che conducono a non ricevere la comunione da una persona sgradita, sacerdote o meno che sia. Qui la posizione diviene grave, a livello morale. Nel momento in cui questa scelta si verifica, non solo si manca di rispetto a una persona considerandola meno di un oggetto, condizione già per sé sufficiente per non potersi accostare alla comunione sacramentale, ma si compie un oltraggio all’Eucarestia, che è dono di Dio e tale resta a prescindere dalla qualità morale della persona che la distribuisce (così come il prete rimane un prete, a prescindere da quanto di sbagliato può aver fatto e di cui renderà conto a chi di dovere, Dio in primis).

È un punto essenziale questo, che deve essere oggetto di reciproca correzione fraterna nella comunità cristiana: se l’Eucarestia, che è Sacramento di comunione, viene resa da una persona motivo di divisione, si giunge a un comportamento che di cristiano non ha più nulla.

’Faccio la comunione’

La seconda espressione che ho proposto alla riflessione delle mie comunità è: “faccio la comunione”. Mi piace moltissimo questa espressione. Essa ricorda innanzitutto a me che al dono corrisponde un compito. Come al dono di un figlio corrisponde il compito della sua educazione e al dono del ministero ordinato il compito della cura della comunità affidata dal Vescovo al sacerdote, con tutto ciò che questa comporta, anche al dono dell’Eucarestia corrisponde un compito.

E questo compito, assai pratico, è quello di “fare comunione”, che presuppone l’essere in comunione. Tradotto: se il sacramento che riceviamo non diventa alimento per una fede che si traduce in gesti concreti, esso viene sprecato e il dono gettato via. L’ “amen” che ciascuno risponde a chi distribuisce l’Eucarestia non è un “pro forma”, ma l’accettazione del compito di edificare la comunità, compito che può essere assolto solo a partire dalla propria vita, nella quale ciascuno è chiamato a costruire legami fraterni, buoni e autentici con gli altri. E, se questi legami si rompono, a ricostruirli, con tutta la fatica, normale e necessaria, che si deve fare per compiere questa azione. La partita fondamentale della fede ce la giochiamo qui, nella coerenza tra quanto celebriamo e quanto viviamo. Ed è una partita che, per il bene della fede e della Chiesa, non possiamo assolutamente permetterci di perdere.

  1. Gentile don Alberto Varinelli,
    mi spiace, ma dalle Sue parole emerge molta amarezza (a mio sentire): questo non può essere frutto di Eucarestia. Lo Spirito mi attira a partire da un’altra prospettiva, quella della partecipazione al sacrificio eucaristico di Gesù, che, solo, ci “incorpora” in quell’unico pane e ci conduce nel cuore di Dio Padre. In quel pane ci siamo tutti noi, a prescindere dalle simpatie o antipatie, che anzi (per esperienza vissuta) possono essere via di “inserimento”, quando sono portate come offerta all’altare e per questo, per l’azione dello Spirito Santo (che ci rende un solo Corpo e un solo Spirito), si trasfigurano nel pane che mangiamo, e, di volta in volta, ci inseriscono sempre più a fondo l’uno nell’altro, e nell’Altro. Molti preti (sempre per esperienza) non fanno trasparire questa realtà unica, ma tendono a considerare -separatamente- il Gesù da ricevere, o da raggiungere (attraverso un compito ben eseguito). Quello che vivo a Messa è ben più grande e vero: è un passaggio (la Pasqua) che io compio perchè inserita nel Corpo e Sangue di Gesù, per Grazia gratuita e donata.

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