La virtù della tenerezza

E’ un’attitudine mite, un modo d’essere, una propensione di accoglienza dell’altro che passa attraverso un alfabeto nascosto di gesti ed espressioni.

L’unica cosa che valga sul serio è la tenerezza.
Evgenij Aleksandroviĉ Evtuŝenko

T come Tenerezza. C’è una virtù, perché tale può definirsi, che non è stata annoverata fra le cardinali e forse non ha mai ambito ad esserlo. È la virtù della tenerezza, un’attitudine mite, un modo d’essere, una propensione di accoglienza dell’altro che passa attraverso un alfabeto nascosto di gesti ed espressioni. Non riguarda grandi ed eroiche azioni e neanche eclatanti manifestazioni di generosità; essa è una predisposizione che si accompagna al lento fluire dei giorni, al passo silenzioso della quotidianità.

Per gli sposi la tenerezza si declina nello spazio dell’intimità: è un linguaggio in cui corpo e spirito dialogano senza sgomitare. Lontano dagli ardori della passione, la tenerezza fa parte di un repertorio non scritto di delicate carezze e gesti che sanno accompagnare le parole senza che l’impeto dei sensi prevalga sul dialogo. Un’arte difficile che – soprattutto i mariti – imparano col tempo. È questa tenerezza che accompagna i coniugi in una vita lunga e serena ed è quella che alimenta gli sguardi e le parole fino alla fine dei giorni.

La tenerezza ispira gentilezze non richieste e dimostrazioni d’affetto sommesse. Le stesse cortesie e i piccoli favori fanno parte di questo piano invisibile e concretissimo. Due anziani che si tengono per mano camminando lentamente in un parco; uno dei due che imbocca l’altro infermo. Tutte le azioni di cura possono essere svolte con professionalità inappuntabile ma se mancano di tenerezza non raggiungeranno mai il cuore del beneficiario. La vecchiaia e la tenerezza sono legate da uno stretto legame, ma non meno forte è il vincolo che a questa virtù nascosta stringe le attenzioni dei genitori nei confronti dei figli.

Fin dell’allattamento – azione tenera per antonomasia – una madre sviluppa un’infinita serie di attenzioni e premure nei confronti del neonato e queste, si potrebbe dire, restano per sempre nella memoria di quel piccolo uomo o donna. Tanto che sarà difficile per loro non cercare anche da adulti proprio quel tipo di affettuosità così gratuita e disinteressata. Crescendo ognuno poi è chiamato a provare a ricambiare (e se non ha ricevuto questo amore da piccolo ne subirà sempre un po’ le conseguenze), a dimostrarsi capace di “inventare” e generare tenerezza a sua volta. Ancora immediata sovviene l’immagine di un bambino che corre in braccio a sua madre, che coglie un fiore per lei o le dedica un disegno.

Ma si pensi anche alle prime manifestazioni di affetto fra coetanei. Quando dall’accaparrare tutto come proprio – “è mio!” – il bimbo compie la rivoluzione di dare qualcosa di suo all’altro. Ecco quello è lo sbocciare primigenio della tenerezza. Giunge poi l’età dell’adolescenza e sembra che la tenerezza sia sopita o celata dietro chiusure, gelosie, scontrosità… in realtà, a guardare bene, essa fa ancora capolino fra genitori e figli e anche fra fratelli… certo è più timida, chiede regole di ingaggio più difficili da indovinare, ma è sempre lì. Si può scoprire tenerezza in una telefonata fatta ad un parente lontano, nell’aiuto in un compito, prevenendo una richiesta e facendo il proprio dovere prima che venga domandato. La tenerezza degli uomini imita quella di Dio che sa ciò di cui abbiamo bisogno prima che lo chiediamo, che ci conosce meglio di noi stessi e non smette mai di accudirci come figli prediletti.

Il segreto di una tenerezza cordiale e spontanea sta nel sentirsi amati, nel rendersi conto che nulla è dovuto, ma tutto è dono. Questa scoperta alimenta i nostri comportamenti con le persone care, come con gli estranei. Il mio prossimo, infatti, non è mai qualcuno di astratto cui elargire la mia buona azione ma una persona concreta che incontro sulla mia strada e che mi offre l’occasione di essere più uomo.