Estate post-covid, ripartiamo dalla montagna. Più escursionisti, più rispetto delle regole

Parla Sandra Bottanelli, che con il compagno Chicco Zani da cinque anni gestisce il Rifugio Albani a Colere

I rifugi montani svolgono da sempre un’importantissima funzione di presidio in alta quota: un ruolo ambientale, sociale e culturale per la tutela di ecosistemi e territori tanto belli quanto fragili. In provincia di Bergamo sono attivi una trentina di rifugi tra CAI e privati: durante il lockdown hanno chiuso i battenti e ora, con la ripartenza dell’escursionismo dopo lo stop di questa primavera 2020, sono di nuovo in prima linea per accogliere vecchi e nuovi camminatori, proteggere le nostre belle montagne e assicurare sicurezza, sensibilizzazione e supporto. Ne abbiamo parlato con Sandra Bottanelli, che con il compagno Chicco Zani da cinque anni gestisce il Rifugio Albani a Colere: sito nella suggestiva Conca del Polzone in Presolana a 1939 metri, il rifugio è punto di appoggio per le arrampicate sulla Parete Nord della Regina delle Orobie e per le escursioni in zona.

Sandra, dove eravate quando a marzo è stata diramata la notizia del lockdown?

A inizio marzo noi eravamo aperti, in piena stagione invernale, dato che siamo uno dei pochi rifugi del CAI di Bergamo aperti sia d’estate che d’inverno. Il 7 marzo abbiamo dovuto iniziare ad applicare le prime restrizioni di distanziamento, e da subito ci siamo trovati in forte difficoltà. Nessuno sapeva e aveva ancora compreso la gravità di quello che avremmo poi dovuto affrontare: in quella giornata, la decisione è stata di chiudere per sicurezza, per tutelare sia noi, i dipendenti e i clienti. Sono sincera, chiudendo il rifugio la sera del 8 marzo, pensavamo che fosse una cosa temporanea… Una o due settimane… Non immaginavamo che la chiusura forzata si sarebbe protratta per 3 mesi e mezzo.

Come avete vissuto i tre mesi di stop? Ci sono stati problemi a livello organizzativo e gestionale per il rifugio?

Uno dei primi problemi organizzativi ha riguardato i magazzini pieni e le materie prime che scadevano… Da subito c’è stato questo danno economico. Abbiamo vissuto questa fase con molte preoccupazioni, sia per il dubbio di sapere quando avremmo potuto riprendere, sia per i nostri dipendenti a cui non potevamo e non sapevamo dare nessuna certezza.


Poi, a giugno, una cauta riapertura delle attività, con tutti i dubbi e le incertezze del caso. Come avete vissuto il momento della ripartenza?

Durante il lockdown, Chicco è salito al rifugio ogni 10-15 giorni per monitorare la situazione frigoriferi, freezer e impianti. Io invece sono salita solo dopo 70 giorni, ed è stato molto commovente… Soprattutto per tutto quello che ha vissuto la gente bergamasca in questi mesi. Con i nostri dipendenti abbiamo sempre mantenuto un rapporto di amicizia e durante la chiusura in più occasioni ci siamo sentiti in videochiamata, per continuare a trasmettere anche a loro tranquillità e la certezza che quando tutto sarebbe stato più gestibile avremmo ripreso. Le paure però erano tante… Avremmo lavorato con lo stesso ritmo e con gli stessi numeri? Avremmo potuto riprendere tutti a lavorare o avremmo dovuto lasciare qualcuno a casa? Poi però, man mano che venivano date le nuove disposizioni, ci siamo resi conto che dal punto di vista igienico eravamo preparati: così, quando abbiamo capito di poter gestire tutto in sicurezza, abbiamo deciso di provare a riaprire. E la riapertura è stata una vera sorpresa: c’è stata moltissima gente, quindi abbiamo vissuto la gioia di sapere che i nostri clienti/amici non ci avrebbero lasciati soli in questa ripresa di avventura. Così, come abbiamo fatto già 5 anni fa quando abbiamo iniziato questa avventura, ci siamo rimboccati le maniche… E ne è valsa la pena. Anzi, abbiamo già dovuto aumentare il personale.


Secondo voi è cambiato qualcosa, dopo il lockdown, nel modo di vivere la montagna da parte di escursionisti e alpinisti?

Tutti sono molto rispettosi delle regole all’interno del rifugio. Una delle cose che abbiamo notato è ovviamente che in caso di bel tempo la gente preferisce restare all’aperto al posto che all’interno del rifugio. Dopo il Covid-19, inoltre, si vedono molte più persone in montagna rispetto a prima, di cui tante “nuove”, nuovi escursionisti che in questo periodo hanno deciso di avvicinarsi alla dimensione montana. Purtroppo dobbiamo ammettere che aumentando l’afflusso delle persone, in automatico aumentano anche i casi di persone che non conoscono le “regole” dei rifugi: abbiamo avuto ad esempio un aumento dei rifiuti abbandonati. Ma il nostro lavoro è anche quello di sensibilizzare e fare da presidio in montagna, quindi siamo certi che in futuro questo cambierà e sempre più persone impareranno a rispettare la montagna in tutti i sensi.

Il rifugio Albani a Colere

Cosa vi raccontano le persone tornate in montagna dopo il Covid-19? Ci sono stati incontri o episodi che vi sono rimasti particolarmente impressi?

Tutti, ma veramente tutti quelli che vengono a trovarci, soprattutto delle zone di Bergamo e Val Seriana, hanno avuto casi in famiglia di persone malate o di parenti deceduti. Più di una persona che è passata da noi ha perso entrambi i genitori in pochi giorni. I racconti non si riesce nemmeno a trascriverli: sono racconti con il nodo in gola e le lacrime agli occhi, che descrivono il carattere forte e la voglia di ripresa della gente bergamasca.