Ritorno alle terre alte per cambiare rotta: “Montagna è anche comunità, radici e resistenza”

Non solo Covid-19, ma anche inquinamento, riscaldamento globale e innalzamento del livello dei mari. E poi solitudine, individualismo, disfacimento dei legami di comunità e perdita dell’identità collettiva: sono molti – e tutti interconnessi – i problemi che potrebbero attenderci da qui in avanti se non si effettua un deciso cambio di rotta culturale, sociale ed economico. Ma la soluzione, secondo l’antropologa Michela Zucca – specializzata in comunità rurali alpine e storia delle donne, nonché presidente dell’associazione Sherwood finalizzata proprio al supporto per il reinsediamento montano – ce l’abbiamo davanti agli occhi: il ritorno alle terre alte, a quella vita e quella economia di montagna che è anche comunità, radici e resistenza.

Montagna come sopravvivenza?

«La connessione tra virus, inquinamento e un preciso modello produttivo intensivo è nota e rimarcata da diversi studi scientifici di comprovata autorevolezza – spiega Zucca -. Quello che è successo con il Covid-19 è emblematico, ci pone davanti agli occhi la necessità di un cambio totale di paradigma sociale ed economico, e dovrà essere un paradigma che ci allontana dalle città e ci riporta “fuori”, in un contesto rurale, agricolo, montano. Niente di nuovo: tutti gli studi epidemiologici dimostrano che la densità di popolazione e il numero di spostamenti pro capite aumenta la probabilità di contagi, e già nel Medioevo si sapeva che uno dei sistemi per contrastare le epidemie prevedeva l’abbandono delle grandi città. L’arco alpino, caratterizzato da insediamenti a stella, sparsi sul territorio e suddivisi in piccole frazioni, ha sempre subito meno della pianura e del contesto urbano l’onda d’urto delle pestilenze».

Non solo: secondo la studiosa, infatti, bisogna tenere anche conto della questione climatica, sparita forse dai telegiornali a cavallo della pandemia ma non per questo ridotta di importanza. «Il riscaldamento globale sta cambiando l’ambiente che ci circonda – spiega Zucca -: di questo passo, tra qualche decina di anni Milano sarà ad esempio invivibile per il caldo. Lo stesso dicasi per la pianura tutta e per le aree costiere, dove oggi si concentra la maggior parte degli insediamenti urbani e della popolazione. Cosa significa tutto questo? Semplice: significa che andando avanti la gente si sposterà verso posti alternativi, più salubri e più freschi, come la montagna. Solo che a differenza del passato, quando il “ritorno alla terra” era più che altro una questione di posizione ideologica, oggi una scelta del genere sarà motivata da una cosa più profonda: la necessità di sopravvivere».

Reinsediamento, comunità e territorio

Bisogna però uscire dalla narrazione idealizzata e romantica del “ritorno alla terra” come se fosse una sorta di eden bucolico tutto rose e fiori. Numeri alla mano, infatti, si scopre che la narrazione di esperienze simili è spesso sovrabbondante rispetto alla realtà: «Come si dice dalle mie parti, “piuttosto che niente, è meglio piuttosto”, quindi bisogna pur cominciare da qualche parte ed è buono che ci siano storie di persone o piccole comunità che scelgono questo cambio di passo e lo mettano in pratica – spiega l’antropologa -. Ma non prendiamoci in giro: non è ancora un movimento significativo dal punto di vista demografico e ambientale. Sono casi isolati. La “restanza”, il restare cioè in montagna o campagna, presuppone un reinsediamento attivo che si prenda cura del territorio nel suo complesso: non significa semplicemente ristrutturare una casetta in montagna e mettersi a fare l’orto, significa ricominciare ad agire come collettività. Significa anche accettare il fatto che l’individuo senza comunità non esiste, e che i bisogni dell’individuo vengono dopo quello della comunità e del territorio».

A titolo di esempio, Michela Zucca cita il paese di Colletta di Castelbianco in Liguria (SV): abbandonato dopo un terremoto e destinato a diventare un paese fantasma, il borgo è stato completamente ristrutturato e dotato di tecnologie d’avanguardia perché chi vi si fosse trasferito potesse lavorare tramite telelavoro e smart working. Una bella iniziativa, che tuttavia «è rimasta avulsa dal contesto geografico e ambientale in cui si è sviluppata – spiega Zucca -. E infatti i terrazzamenti tutt’attorno stanno crollando, perché il reinsediamento, pur mettendo a nuovo un borgo bellissimo, non si è posto il problema della cura del territorio. Una cura che si attua solo costruendo comunità».

Il problema è più ampio. Sebbene il 78% del suo territorio sia montuoso (siamo al secondo posto europeo dopo la Svizzera per estensione di ambiente montano), l’Italia è l’unica nazione in Europa a non aver mai attivato veri e propri programmi di reinsediamento: programmi che, differenziandosi di paese in paese, danno aiuto, appoggio e sostegno a chi vuole insediarsi in una dimensione rurale o montana, al di fuori del contesto urbano. In Italia iniziative simili sono sporadiche, in capo a singoli comuni o singole comunità, ma niente di strutturato a livello nazionale. E tuttavia il tema del reinsediamento è, secondo Zucca, un tema di primaria importanza, fondamentale per immaginare un futuro possibile. Un tema che però richiede un approccio molto concreto e una grande consapevolezza circa la necessità di superare tutta una serie di tabù a cui la società “urbana” ci ha abituati: «Vivere in montagna significa tornare a fare fatica, a riconsiderare le aspettative di vita, a dismettere l’individualismo a cui siamo avvezzi ora a favore invece di un un’idea di comunità. E le comunità saranno più piccole, coese, egualitarie ed inclusive, anche per gli elementi più deboli come bambini, o anziani. Come lo erano le comunità montane del passato».