Libano: “Le proteste continuano, ma c’è un grande desiderio di pace”

La testimonianza di Cristiana Ravizza, studentessa bergamasca, che ha vissuto a Beirut partecipando a un programma di scambio

Un sorriso che racchiude tutto l’entusiasmo dei vent’anni e due occhi che, nonostante la giovane età, hanno già visto terre lontane. Cristiana Ravizza, ventiduenne di Boccaleone, di viaggi alle spalle ne può vantare diversi, ma il più caro ed importante, ha un gusto particolare: quello dei cedri del Libano. «Prima di innamorarmi del Libano mi sono innamorata delle lingue e, in particolare, dell’arabo – racconta Cristiana, una laurea triennale in Scienze politiche e delle relazioni internazionali, presso l’Università degli Studi di Pavia –. È proprio la volontà di impararlo e, allo stesso tempo, di comprendere i fenomeni politici e sociali dei Paesi in cui viene utilizzato, ad avermi spinto ad iscrivermi all’Università di Pavia».

Cristiana Ravizza, studentessa di Bergamo

Al secondo anno accademico, il desiderio di intraprendere un’esperienza all’estero si fa più profondo e Cristiana, tramite una borsa di studio, può finalmente realizzare il suo sogno. «Grazie all’Overseas Exchange Program (una sorta di Erasmus, ma per le nazioni extra Ue), ad agosto 2019 sono partita per Beirut – spiega la studentessa –. Qui, ho frequentato, per quattro mesi, la Lebanese American University, soggiornando nella casa per gli studenti, che si trovava nel quartiere musulmano di Hamra. Ambientarmi non è stato semplice, anche solo per il fatto che, come in ogni nazione araba, per strada e nella vita di ogni giorno, si parlava il dialetto e non l’arabo classico. Ovviamente, inoltre, nonostante il mio entusiasmo, ho dovuto relazionarmi a una cultura totalmente diversa e, soprattutto, fare i conti con un ordinamento politico davvero particolare, distante forse anni luce dalla concezione di governo e democrazia che abbiamo in Europa e, più in generale, in Occidente». Un sistema complesso, quello libanese odierno, che affonda le proprie radici nella violenza della guerra civile, che, dal 1975 al 1990, ha piegato il Paese. «In Libano, vige il confessionalismo, che garantisce la coesistenza delle principali comunità religiose, quella cristiana maronita, quelle musulmane (sciita e sunnita) e quella drusa – afferma Cristiana –. Questo modello consiste, fondamentalmente, in una sorta di “power-sharing”, in cui il potere politico ed economico viene suddiviso in “quote”, in base al numero demografico dei fedeli di ogni singolo credo. Se, da una parte, ciò permette un certo equilibrio, è evidente che, dall’altra, questa modalità rende la società libanese ingessata: si pensi, per esempio, al fatto che se un cristiano vuole sposare un musulmano può farlo solo se una delle persone che formano la coppia si converte alla religione dell’altra. È anche per questo che, dal 1932, non è stato più indetto alcun censimento della popolazione, per paura che eventuali risultati possano contribuire a sbilanciare la situazione attuale. Il confessionalismo permane perché chi possiede il potere è interessato a mantenerlo. Non per niente, i membri dell’élite governativa, seppur esponenti di religioni diverse, sono fortemente uniti. Ma, nonostante il modello del confessionalismo, il Libano è un paese moderno e dinamico, ricco di storia, culturalmente vivace e pieno di giovani». Proprio durante il soggiorno di Cristiana, le contraddizioni libanesi esplodono, andando a causare grandi manifestazioni in tutta la nazione.

Le proteste in piazza a Beirut

«Il 17 ottobre, a metà della mia esperienza, sono scoppiate le proteste e il loro epicentro è stata Beirut – racconta la giovane –. La loro origine è da ricercarsi in uno scontento generale che covava da anni, causato dalla crisi economica, dai problemi sociali e, in particolar modo, dalla corruzione politica dilagante. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, comunque, è stata la proposta, da parte del ministro delle telecomunicazioni, di tassare le chiamate WhatsApp. Ma il malumore è stato determinato anche dal pessimo (e tardivo) intervento con cui il governo ha cercato di porre fine agli incendi che, qualche settimana prima delle proteste, avevano interessato il distretto dello Shuf e l’area a sud-est di Beirut. Le manifestazioni, nonostante fossero, in gran parte, pacifiche, hanno letteralmente paralizzato il Paese e costretto il primo ministro Ḥarīrī a dimettersi. Le banche hanno chiuso gli sportelli al pubblico, i ristoranti hanno cessato, momentaneamente, la loro attività e i corsi sono stati sospesi per tre settimane. È stato un periodo di immensa tensione, nessuno di noi studenti sapeva cosa sarebbe successo, come sarebbe andata a finire, eravamo molto preoccupati, anche perché la nostra coordinatrice ci aveva consigliato di non uscire di casa. Ad ogni modo, nonostante avessi la possibilità di tornare in Italia, ho deciso di rimanere e di attendere la riapertura dell’università». È in questo momento di solitudine e smarrimento, però, che a Cristiana viene un’idea. «Prima di partire per il Libano, avevo immaginato di approfittare di questa esperienza nel mondo arabo per scrivere la mia tesi di laurea triennale – spiega Cristiana –. L’oggetto di indagine avrebbe riguardato la condizione delle donne in Medio Oriente. La diffusione delle proteste, però, ha fatto nascere in me il desiderio di dar vita a una ricerca diversa che, attraverso le testimonianze raccolte, potesse mettere in luce i limiti del confessionalismo libanese».

“Il confessionalismo come una corporazione”

Cristiana, quindi, contatta il professor Francesco Mazzucotelli, bergamasco come lei, ma, soprattutto, docente di Storia della Turchia e del Vicino Oriente, presso l’Università degli Studi di Pavia. «Il professor Mazzucotelli si è rivelato subito disponibile a diventare mio relatore, anche perché pure lui, per un periodo della sua vita, ha vissuto e studiato in Libano – dice la studentessa –. Mi sono dunque messa subito all’opera, informandomi attraverso “Daleel Thwra”, una pagina Instagram grazie alla quale potevo sapere in anticipo dove si sarebbero svolti i raduni e i dibattiti dei manifestanti. Del resto, i social hanno avuto un ruolo preponderante durante la sollevazione. Ad ogni modo, l’emozione più grande l’ho provata quando mi sono recata al Beirut Central District, una zona esclusiva, molto ricca, dove poche persone possono permettersi di vivere: la popolazione si era riappropriata di questo quartiere, attraverso un’invasione pacifica. È stato bello partecipare, vedere persone di ogni età sventolare la bandiera del Libano, al di là del credo professato». Per un mese intero, Cristiana raccoglie le testimonianze dei manifestanti, dando forma, pian, piano, a quella che sarà la sua tesi di laurea triennale (“Critica al confessionalismo libanese attraverso le proteste antisistema del 2019”, votazione: 110 con lode). «I manifestanti si riunivano principalmente nei pressi della moschea di Al-Amin, posizionata nel centro di Beirut – racconta la ragazza –. Qui avevano installato dei gazebo, qui si svolgevano i dibattiti, venivano erogati servizi pro bono a livello sanitario e veniva offerta pure una raccolta di vestiti per le persone meno abbienti. Alla fine, ho realizzato cinque interviste e, ad ognuna delle persone che ho sentito, appartenenti a età e ceti sociali differenti, ho posto quattro diverse domande. E siccome tutti i manifestanti erano avversi al confessionalismo, la domanda principale che rivolgevo alla gente era, naturalmente, come mai fossero così ostili a questo modello politico. C’è chi mi ha risposto che il confessionalismo è come una corporazione che protegge i suoi sostenitori, andando, però, a polarizzare gli schieramenti e a creare, così, forme di ricatto e minacce verso le persone delle singole comunità. C’è chi, invece, mi ha spiegato, con forza, come lo spazio pubblico debba essere laico e chi, ovviamente, ha lamentato, nella risposta che mi ha dato, la mancanza di diritti civili: un musulmano, per esempio, non può ereditare da un cristiano e viceversa. È stato bello vedere nello sguardo di queste persone la volontà di mutare in meglio il proprio Paese, il desiderio di costruire una società più equa e pacifica. Ma come ho cercato di dimostrare nella mia tesi, questa aspirazione non può non prescindere dal superamento del confessionalismo, ovvero un sistema che riconosce i suoi cittadini non in quanto libanesi, bensì in quanto cristiani, musulmani o drusi. L’appartenenza religiosa, in Libano, precede l’appartenenza alla nazione. Per questo, i manifestanti, prima di rispondere alle mie domande (o alle domande dei telegiornali nazionali), introducevano sé stessi con un convinto “Io sono libanese”. Dire ciò, significa affermare che la propria identità va al di là della fede professata e della comunità religiosa di appartenenza e che la propria persona va oltre uno stato che lo storico Traboulsi non ha paura di definire “mafiocratico”». Una situazione difficile da risolvere. «Dopo la guerra civile, gli accordi di Tā’if affermavano come la seconda Repubblica libanese avrebbe dovuto essere caratterizzata dal confessionalismo – spiega Cristiana –, intesa come una semplice fase transitoria, verso una repubblica democratica, in cui la quota di potere non sarebbe più stata divisa in base ai vari culti. Ma come è possibile che una classe politica confessionale metta fine al confessionalismo? È una contraddizione. La mia ricerca mi suggerisce che il cambiamento non sarà repentino».

Una rivoluzione mancata

Una ricerca, quella di Cristiana, non esente da rischi e nemmeno da qualche delusione. «Cercavo di intervistare i manifestanti prima che facesse buio, non tornavo al dormitorio più tardi delle otto di sera, fermarmi a lungo non mi sembrava prudente – spiega Cristiana –. Una volta, alcuni militanti di Hezbollah hanno cercato di dar fuoco ad alcuni gazebo, mentre un’altra volta i poliziotti, per disperdere la folla, hanno sparato dei colpi di pistola in aria. Fortunatamente, sono sempre riuscita a fuggire o a nascondermi e non mi è mai successo nulla di male. Ma ho avuto paura. Provo poi un po’ di dispiacere nel constatare che questa rivoluzione, alla fine, sia una rivoluzione a metà, forse mancata: nessuno si aspettava che il sistema sarebbe stato sovvertito da un giorno all’altro, ma, per lo meno, molti si auguravano l’emergere di una leadership forte, di obiettivi concreti, di programmi credibili. E invece, nonostante le manifestazioni siano dilagate da Tripoli fino a Tiro, riscuotendo grande successo, non è emersa un’agenda politica chiara, tanto meno dei risultati palpabili. Sotto la bandiera della protesta anti-confessionale si sono riuniti manifestanti dalle istanze ideologiche e partitiche differenti, che hanno una visione diversa della cosa pubblica e che difficilmente, a mio avviso, potranno convivere a lungo». Una protesta, quella libanese, che neanche il Covid o l’esplosione del 4 agosto hanno fermato. «Le manifestazioni, durante l’arrivo del Covid, non si sono arrestate (soprattutto nella città di Tripoli) e, ancora oggi, nonostante la terribile esplosione di qualche settimana fa, stanno continuando. Ma è innegabile che dopo il 4 agosto, oltre alla rabbia, è montata pure molta tristezza e molta frustrazione. L’onda d’urto è stata potentissima: una mia cara amica, che vive nel quartiere di Achrafieh, ha perso la casa». Ma nonostante il fragile equilibrio economico, politico e sociale del Paese, nelle parole di Cristiana (che in Libano vuole tornare) risuona la speranza: «Il dramma dell’esplosione spero possa svegliare le coscienze e accelerare quel processo di consapevolezza, in modo che il popolo libanese possa porre fine al confessionalismo e a decenni di corruzione. Non sarà semplice, ma il desiderio di libertà e pace credo sia più forte di qualsiasi ostacolo».