Essere genitori ai tempi del covid-19. Alberto Pellai: “La tempesta ci ha dato nuove consapevolezze”

Mentre il Paese si interroga su quanto sia reale un nuovo lockdown in Italia e i virologi sostengono che è essenziale reggere alla riapertura delle scuole, Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, ricercatore presso il dipartimento di Scienze Bio-Mediche dell’Università degli Studi di Milano, dove si occupa di prevenzione in età evolutiva, si domanda “Quello che noi genitori abbiamo imparato in tempo di emergenza su di noi, sui nostri figli e sul nostro rapporto con loro”, sottotitolo del suo libro “Mentre la tempesta colpiva forte” (De Agostini 2020, pp. 223, 15,90 euro) in edicola dal giorno 8 u.s. .

Se l’aumento dei nuovi casi di contagio è in media di circa 1500 al giorno, per l’autore è fondamentale riattraversare “questa cosa”, i tanti lutti, la paura, il lockdown con tutte le sue conseguenze negative, che nessuno ha cercato e voluto, col potere che ha la memoria di rivivere ciò che è stato, per farne tesoro.

Di tutto ciò abbiamo dialogato con Alberto Pellai, autore di molti bestseller per genitori, educatori e ragazzi, al quale nel 2004 il Ministero della Salute ha conferito la medaglia d’argento al merito della Sanità pubblica.

Prof Pellai, la pandemia che ancora vive tra noi e che ha travolto le nostre vite ha anche mutato il modo di essere famiglia. Tutto ciò ci ha reso più forti?

«In molti casi sì, abbiamo rinforzato i legami familiari, abbiamo posto un nuovo sguardo sulle vite dei nostri figli, più presente, più vicino, più attento anche ai loro bisogni emotivi. È vero anche, però, che le famiglie già fragili e con vulnerabilità evidenti prima che la pandemia avesse inizio, in questo tempo così faticoso e sfidante, possono aver incontrato maggiori difficoltà ed essersi ulteriormente infragilite».

Lei sostiene che “questo tempo così stropicciato” ci ha insegnato qualcosa, per esempio che ci siamo scoperti resilienti?

«In generale succede così nella vita. Le crisi hanno anche la possibilità di trasformarsi in opportunità. Di solito noi impariamo cose su di noi, cose che ci aiutano ad affrontare la vita proprio quando usciamo dalla nostra “comfort zone”. Ci sentiamo sfidati, interpellati, dobbiamo attingere a risorse che non mettiamo in gioco normalmente e la resilienza è alla fine della nostra consapevolezza di essere stati in grado di attraversare un tempo complesso, una sfida difficile, rimanendo integri, compatti, avendo appreso nuove competenze».

Lo scorso fine febbraio, in brevissimo tempo l’intero Nord Italia si è trasformato in quel pezzo di Cina, che fino a pochi giorni prima vedevamo in televisione. I nuovi cinesi, raccontati dai media di tutto il mondo, siamo diventati noi. Che cosa ha pensato in quei momenti?

«Fondamentalmente ho pensato a capire che cosa avrei dovuto fare e cosa sarebbe dovuto succedere e cosa significava entrare in un pezzo di vita che per noi era inimmaginabile e quindi cosa avremmo dovuto mettere in gioco. Soprattutto ho pensato cosa vuol dire essere genitore in questo frangente. Noi abbiamo quattro figli: le loro vite venivano chiuse completamente per la prima volta. Reclusi dentro un’abitazione diventavamo un po’ prigionieri dentro la nostra casa senza aver commesso alcun reato. Allora mi sono domandato: “Cosa serve?” ».

Il lockdown: tutti insieme, tutti uniti, 24 ore su 24. Un esperimento di convivenza forzata mai visto prima. Decine, centinaia di milioni di persone in ogni angolo del mondo si sono chiuse in casa. Lei e sua moglie Barbara Tamborini, psicopedagogista, autrice di diversi testi sull’età evolutiva, avete quattro figli, dagli 11 ai 20 anni: Jacopo, Alice, Pietro e Caterina. Come è stata la Vostra esperienza?

«All’inizio è stata caotica, travolgente, a volte stravolgente, intensa. Questa esperienza ci ha permesso di vedere i nostri figli in un contesto che, appunto, prima era inimmaginabile. Abbiamo visto il senso di responsabilità dei nostri figli, come racconto nel libro, abbiamo visto un nuovo modo di sviluppare e di potenziare la loro fratellanza. Abbiamo visto all’interno della famiglia nascere una solidarietà, un nuovo modo di stare con gli altri membri della famiglia, che non si sarebbe messo in gioco in condizioni normali. La famiglia che ha attraversato il lockdown è un po’ il riflesso di quello che dovrebbe succedere nel mondo, cioè aumentare l’attenzione all’altro, aumentare la dimensione della solidarietà e sostenersi vicendevolmente, perché l’unione fa la forza. Se siamo qui a parlare di questa esperienza vuol dire che l’abbiamo (ri)attraversata, rielaborata. Abbiamo anche visto succedere tante cose belle, un po’ quelle parole chiave che ho scelto per i sei capitoli del libro».

Nelle ultime pagine del libro parla di una e-mail che ha ricevuto. Ce ne vuole parlare?

«Dopo la fine del lockdown, mi ha scritto don Matteo Cella, parroco di Nembro, che è il paese italiano che ha avuto il maggior numero di morti in proporzione alla popolazione dello stesso paese. Don Matteo raccontava che Nembro stava lavorando alla rielaborazione di tutto il dolore e di tutto il lutto, che la popolazione aveva vissuto. Inoltre don Matteo nella e-mail sottolineava che Nembro stava lavorando per la ripartenza, per guardare avanti e dare nuovi progetti alla comunità e fare della solidarietà un motore per riappropriarsi della dimensione della vita dopo aver sentito così pesante la perdita e il lutto. Nembro aveva intenzione di organizzare una rassegna di eventi estivi nella piazza del paese e il parroco stava chiedendo a più persone, e io ero uno di queste, la disponibilità. Essere presenti, parlare alla popolazione di temi, che erano diventati le parole chiave del progetto di ripartenza. Ho considerato la richiesta di don Matteo una sorta di testimonianza simbolica del percorso che ho fatto dentro il libro, cioè guardare quello che avevamo vissuto, attribuirgli dei significati, che non andassero nella direzione della disperazione ma nella dimensione della solidarietà e della speranza. Anch’io con le mie attività sono ripartito da lì. Quello di Nembro è stato il mio primo incontro pubblico dopo l’inizio della pandemia ed è stato il luogo dove ho provato a raccontare alle persone tutte le cose che stavo scrivendo per il mio libro. Per me Nembro rimane un ricordo importante, perché ho visto cosa è la resilienza non in teoria, ma in pratica. Una comunità che si riprende metaforicamente per mano e che, pur essendo stato colpita forte dalla tempesta causata dalla pandemia da Covid-19, si rialza e decide di proseguire il proprio cammino».