Missionari al tempo del covid–19. Padre Giulio Albanese: una rete di costruttori di pace

Padre Giulio Albanese missionario comboniano, uno dei maggiori esperti di problematiche africane, religiose e non solo, fondatore nel 1997 dell’agenzia missionaria MISNA, è abituato a parlare in modo diretto, schietto, soprattutto quando vengono toccati temi legati all’Africa e al Sud del mondo in relazione alle missioni. 

È innegabile, Padre Giulio, che al tempo della pandemia da Covid-19 che ha cambiato per sempre il nostro modo di agire, pensare e comportarsi, sia cambiata anche la Chiesa di Cristo in missione nel mondo. Tutto è diventato più difficile? 

«È una domanda da un milione di dollari, Il lockdown c’è stato anche in quelle che Papa Francesco chiama giustamente “le periferie del mondo”, le periferie geografiche ed esistenziali, dunque non solo per noi. Questo ha imposto tutta una serie di limitazioni, i governi non hanno adottato tutti le stesse misure, in alcuni casi sono state più restrittive, in altri casi c’è stata, come dire, maggiore tolleranza. È evidente che questo è anche dipeso dai dati legati alle infezioni e ai decessi causati dal Coronavirus. Se parliamo dell’Africa, indubbiamente il fatto che ci siano stati più di un milione di contagiati, sia un dato preoccupante. È da considerare che la popolazione del continente africano è di oltre un miliardo e trecento milioni di abitanti. Quello che intendo dire è che la manifestazione del Coronavirus in Africa ha avuto delle caratteristiche diverse rispetto ad altre realtà continentali come l’Europa o soprattutto gli Stati Uniti, pensiamo anche al Subcontinente indiano. In effetti si è manifestata una resilienza da parte della popolazione africana, si cui si sta studiando, che certamente ha rappresentato un dato inedito. Si riteneva che dovesse esserci una vera e propria ecatombe, soprattutto nelle baraccopoli per l’alta densità della popolazione concentrata nelle bidonville. Questo non c’è stato, ci sono stati decessi, ma il fenomeno per certi versi è stato più contenuto. I condizionamenti ci sono stati, anche la mobilità degli agenti pastorali delle “periferie del mondo”, penso all’Africa, ma anche ad altre realtà continentali, è stata condizionata. Tutto questo ha rappresentato un handicap dal punto di vista reale». 

Quali sono state le iniziative messe in campo? 

«Nelle giovani chiese a differenza delle chiese di antica tradizione, i fedeli, la gente comune, ha una discreta capacità organizzativa nei piccoli gruppi, una maggiore sussidiarietà, un maggiore senso di corresponsabilità. Mentre nelle chiese occidentali, il clero è “indispensabile”, molte volte nelle giovani chiese, i laici si devono organizzare da soli se non c’è disponibilità di sacerdoti o non ce ne sono a sufficienza. Questi piccoli gruppi riescono ad andare avanti attraverso la celebrazione della Liturgia della Parola, attraverso momenti di preghiera comunitari che non sono necessariamente legati alla presenza del sacerdote, del presbitero. Da questo punto di vista le giovani chiese sono molto più avanti rispetto alle nostre». 

Pochi giorni fa sono stati liberati Padre Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio, i due italiani rapiti in Niger nel 2018, per due anni e mezzo nelle mani del gruppo jihadista Jnim, legato ad Al Qaeda. Una doppia bella notizia per Padre Albanese. 

«Non deve essere stata un’esperienza piacevole per Padre Pier Luigi restare due anni e mezzo nelle mani degli jihadisti. Vorrei sottolineare un altro aspetto, la liberazione è avvenuta a pochi giorni dalla promulgazione dell’Enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti”. Chi più di Padre Maccalli, ma penso anche a tanti altri missionari, da questo punto di vista rende comprensibili quelle verità che Bergoglio ci ha offerto nel suo illuminato magistero? Papa Francesco ci ha detto che non è che la pace, la giustizia e la solidarietà siano realtà a sé stanti, altrimenti questi ideali si dissolvono in bolle di sapone. C’è il costruttore di pace, c’è il missionario, c’è l’evangelizzatore, c’è il cooperante. Cioè c’è colui che vive la dimensione valoriale. Da questo punto di vista la testimonianza di Padre Maccalli è davvero emblematica. Lui in fondo ha fatto la scelta di stare a quelle latitudini, in quel tipo di contesto proprio per riaffermare un messaggio di riconciliazione, anche di fronte a personaggi malavitosi come possono essere gli jihadisti. Il concetto qual è? Mai come oggi dobbiamo affermare “la globalizzazione intelligente di Dio” che è in antitesi alla globalizzazione dell’indifferenza che si fonda sulla cultura dello scarto. Padre Maccalli in questo è un vero campione». 

Un altro vero campione in questo senso è sicuramente Padre Paolo Dall’Oglio, il gesuita italiano scomparso sette anni fa in Siria, che alcuni ritengono sia stato subito ucciso dopo il rapimento. 

«Prego e mi associo al dolore della famiglia. Non ci sono altre speculazioni da fare, se non la considerazione che quello che è successo ci rattrista fortemente. Papa Francesco ha pregato moltissimo per Padre Dall’Oglio, che peraltro è un suo confratello. Quello che è successo a Padre Paolo è la metafora di quello che è il calvario del popolo siriano». 

Padre Albanese è molto attivo su Facebook. Giorni fa ha scritto: 

“Vorrei proporre alla lettura degli amici di Facebook la parte finale del secondo capitolo dell’enciclica “Fratelli Tutti” di Papa Francesco. La sezione è intitolata “L’appello del forestiero”. La forza delle sue parole si manifesta nella capacità di saper coniugare “Spirito” e “Vita”. Partendo dalla Sacre Scritture, il pontefice ci aiuta a comprendere cosa significa essere davvero cristiani nel nostro tempo”. Chiediamo al gesuita di chiarirci il perché di questo post.

«Questo discorso si riferisce soprattutto a certi cristiani benpensanti che spesso hanno una predilezione per “merletti e candelabri”, un cristianesimo devozionista, disincarnato, per certi versi, me lo consenta, oppiaceo, che non c’entra assolutamente niente con quello che Nostro Signore Gesù Cristo ci ha insegnato. Papa Francesco non fa altro che dirci che la spiritualità cristiana è Vita secondo lo Spirito. Quindi, quello che io celebro in chiesa, poi devo renderlo intelligibile dal punto di vista testimoniale nell’agorà, nella piazza, nel mondo, nella serialità della vita. Purtroppo dobbiamo dire che ci sono molti cristiani che da questo punto di vista hanno ancora le idee confuse». 

Il conforto della Chiesa all’umanità sofferente è ancora più tangibile ora che stiamo vivendo un passaggio epocale problematico? 

«La vita cristiana deve essere eucarestia – conclude Padre Albanese -. Se noi non siamo capaci di tradurre l’azione pratica di fede in quello che celebriamo in chiesa, se facciamo noi stessi fatica a essere pane spezzato per i fratelli e le sorelle che la provvidenza ci mette di fronte, San Paolo direbbe che la nostra fede è vana. Quello che intendo dire è che bisogna passare dalle parole ai fatti, soprattutto in questo tempo di emergenza, in questo tempo di Covid-19 in cui la testimonianza è davvero, come scriveva bel 1990 San Giovanni Paolo II nell’Enciclica “Redemptoris Missio”, la prima forma di missione».