Le ferite più profonde della pandemia sono invisibili quanto il virus. La paura di abbracciare le persone più care, di prenderle per mano, il pensiero che potrebbe bastare questo per esporle al contagio. L’incertezza del futuro, la sensazione che intorno “crolli tutto”. Il timore di qualunque contatto, anche casuale, ormai “proibito”, il cambiamento della nostra vita sociale. La preoccupazione per gli anziani, soprattutto quelli ricoverati nelle residenze sanitarie assistite.
Sono questi i pensieri che si muovono quando leggiamo “Ci risiamo” sulle bacheche dei social network. La posta in gioco è (di nuovo) molto alta: la salute, prima di tutto, una situazione economica delicatissima e precaria, ma anche la nostra vita così come la conosciamo. Nonostante le rassicurazioni generali (l’Italia è pronta, i posti in terapia intensiva ci sono, le misure di contenimento funzioneranno) la percezione più diffusa è di incertezza e smarrimento, aggravate dalla stanchezza e dal disagio accumulati nella primavera scorsa. Per qualche momento, durante l’estate, sotto il sole, in mezzo a un prato, su un sentiero di montagna o di fronte a un cielo azzurro ci siamo illusi che il mondo ci appartenesse di nuovo. Abbiamo provato a scordarci che cos’è successo, anche se tutti ne portiamo i segni.
Sentiamo nell’aria il preludio di un tempo di nuovo difficile. È una prova ardua anche e soprattutto dal punto di vista psicologico e in generale umano: come scrive in una lettera pubblicata su Facebook un parroco della città, don Enrico, in un momento in cui sul nostro territorio l’emergenza arriva ancora come risonanza da territori vicini (i nostri ospedali stanno accogliendo prevalentemente pazienti milanesi) occorre “tornare a guardare le persone e non solo il virus”, cercando e contrastando anche i segnali di disagio psichico. “Anziani, adulti, genitori, figli piccoli e adolescenti hanno bisogno di ascolto e accompagnamento personale” dal vivo, non online. “C’è bisogno di comunità e di rielaborazione collettiva”. Anche in questa chiave segnaliamo questa settimana nel dossier, come importanti occasioni di “mediazione culturale” alcune mostre d’arte e fotografia dedicate alla pandemia e alle trasformazioni che ha innescato allestite (anche) sul nostro territorio. Come ha detto Papa Francesco nel messaggio per la solennità di Pentecoste “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”. L’obiettivo dev’essere, come scrive Stefano Ramazzotti, uno dei fotografi del progetto “CoviDiaries” dell’agenzia milanese Parallelozero, al centro del festival Fotografica a Bergamo, cercare anche in questi tempi cupi “il seme dell’opportunità”.