Tobrevshcuseb: un’installazione per denunciare l’isolamento degli anziani

Un’opera nata per far riflettere su uno degli aspetti della pandemia, che in questi mesi è rimasto dell’ombra: l’isolamento delle persone anziane nelle case di riposo e negli ospedali.

Un’anziana donna, i capelli bianchi, lunghi e fini, quasi impalpabili, il volto coperto da una mascherina e il corpo incastrato in mezzo a decine di bottiglie di disinfettante vuote, si sforza di tendere la mano goffamente avvolta da un guanto in lattice al di là del recinto che la circonda. Qualche decina di centimetri più in là un altro recinto, al di là del quale due bambini cercano di annullare la distanza, l’uno infilando la mano in una fessura della rete metallica, l’altro cercando di abbatterla coi pugni. È l’installazione che per tutto il mese di ottobre è esposta nella navata centrale della Spitalskirche di Innsbruck, la chiesa del vecchio ospedale che, con il suo inconfondibile campanile verde a cipolla, si trova all’imbocco della Maria-Theresien-Straße, a un paio di metri di distanza dall’ingresso del centro storico del capoluogo tirolese.

“Tobrevshcuseb” è il titolo – apparentemente incomprensibile – di un’opera nata per far riflettere su uno degli aspetti della pandemia, che in questi mesi è rimasto dell’ombra: l’isolamento delle persone anziane nelle case di riposo e negli ospedali. A realizzarla è stato Wolfgang Halder, internista e geriatra all’ospedale di Hochzirl, che dal capoluogo tirolese dista poco meno di 15 chilometri. Durante i mesi del lockdown, Halder ha respirato quotidianamente la sofferenza di tanti anziani che si sono visti improvvisamente privati del contatto con i propri cari. E chi, a causa dell’anagrafe, non ha alcuna dimestichezza (non solo tecnica ma anche culturale) coi moderni strumenti di comunicazione, questa privazione l’ha vissuta con ancor maggior sofferenza.

Nel presentare l’opera, Halder ha sottolineato che essa non vuole essere una critica alle misure adottate nel pieno della crisi pandemica, ma ha come obiettivo quello di far riflettere sul fatto che concentrarsi solo sul tasso di mortalità e sul numero dei contagi non è sufficiente. “Come medici siamo chiamati a tutelare sempre la vita. L’obiettivo, però, di salvare vite a tutti i costi può ridurre la vita a un ‘non essere morto’ – spiega il medico-artista –. Questa installazione vuole mostrare che il successo ridotto a numeri può nascondere anche dei danni. Il mio auspicio è che non si debba più arrivare ad imporre il divieto di visita, così com’è accaduto in primavera e che si lavori insieme per trovare il modo di garantire in futuro visite ‘sicure’ nelle case di riposo e negli ospedali”. Un auspicio, questo, che trova l’appoggio anche della responsabile dell’ospedale di Hochzirl, dott.ssa Monika Lechleitner, di Kathrin Sevecke, primario di psichiatria pediatrica all’ospedale di Hall, e di Günter Weiss, direttore della clinica di medicina interna all’università di Innsbruck. Ciascuno di loro, impegnato in prima linea durante il periodo del lockdown, ha potuto constatare come l’isolamento forzato abbia provocato negli anziani problemi non solo fisici, ma anche psicologici.

A volere per tutto il mese di ottobre l’installazione esposta in quella che un tempo era la chiesa dell’ospedale è stato il vicario episcopale di Innsbruck, Jakob Bürgler. Non è la prima volta che la diocesi tirolese sceglie il linguaggio artistico contemporaneo per suscitare una riflessione. Perché nell’epoca in cui l’immagine arriva prima delle parole, sono le immagini che ci possono far riflettere e non devono smettere di interrogarci.

Nella lotta contro questo virus, che non è invincibile, ma che non va assolutamente sottovalutato, tutti siamo chiamati a dare il nostro contributo. A partire dal far entrare nel nostro quotidiano le regole per la prevenzione del contagio: indossare la mascherina, evitare gli assembramenti rispettando la distanza di sicurezza e lavarsi spesso le mani.

Ma si può fare ancora di più. Ce lo ricorda proprio l’installazione ospitata nella Spitalskirche di Innsbruck, quella “Tobrevshcuseb”, dal nome tanto incomprensibile quanto incomprensibile risulta essere ancora il coronavirus.

Eppure a volte basta veramente poco per trovare il bandolo della matassa. Anche di quella più intricata. A volte basta semplicemente invertire, ad esempio, la prospettiva ed ecco che “Tobrevshcuseb” diventa “Besuchverbot” (letteralmente ‘divieto di visita’). E a volte basta semplicemente invertire la prospettiva del nostro modo di vivere la preghiera, per scoprire cosa significa essere “Chiesa in uscita”, Chiesa che si mette in ascolto di Dio e dell’uomo e si lascia guidare dal genio dello Spirito – che non finisce mai di stupire – per dare non solo giorni alla vita, ma soprattutto vita ai giorni.