Il ricordo dei morti ai tempi del covid-19. “Facciamo pace con ciò che sfugge al nostro controllo”

Dialogo con padre Arnaldo Pangrazzi, autore del libro "Lenisco il mio dolore parlando del mio amore. Per l'accompagnamento delle persone sofferenti e nel lutto""

Padre Arnaldo Pangrazzi, camilliano, ha iniziato il suo ministero accompagnando i morenti e le persone in lutto a Milwaukee, negli Stati Uniti, per poi dedicarsi all’insegnamento su queste tematiche. Attualmente cappellano in un hospice di Roma, l’autore ha recentemente scritto un libro attualissimo, “Lenisco il mio dolore parlando del mio amore. Per l’accompagnamento delle persone sofferenti e nel lutto (Edizioni San Paolo 2020, pp. 192, 12,00 euro), considerato i tempi difficili che stiamo vivendo. 

Abbiamo intervistato Padre Arnaldo Pangrazzi.

Nei lutti alcuni sono capaci di reagire sostenuti dai legami affettivi, dalla fede e dagli impegni, altri rimangono smarriti e disperati. Come aiutarli? 

«La prima forma di aiuto è essere presenti. Esserci, perché la presenza in se stessa è un segno di prossimità, una forma di consolazione. Esserci non risolve i problemi della persona perché il lavoro deve essere fatto da colei/colui che è nel cordoglio, che sta attraversando un momento di sconforto. Quindi le persone devono portare qualcosa da dentro a galla, ma se queste persone non hanno dentro l’intenzione di farlo, se non sono disposti a riconoscere i loro problemi e il bisogno di aiuto, posso fare milioni di prediche, ma non servono a nulla. Occorre risvegliare dentro qualcosa che aiuti queste persone a guardare la vita cambiata con uno sguardo diverso. Questo può influire sul comportamento e sullo stato d’animo. Sono piccoli passi da fare che sono simili a frammenti di speranza».

Scrive che il cammino per trasformare la disgrazia in grazia, è lungo e tortuoso. Ce ne vuole parlare?

«Sì, anche perché stiamo attraversando un periodo storico nel quale molte famiglie sono provate non solo dalla morte di una persona cara, ma oppresse da problemi economici. Ognuno ha delle cime diverse da scalare. Per alcuni il terreno è una collina, per altri le Alpi, per altri ancora le Dolomiti. Non sappiamo quanto sia tortuoso il cammino o quanto sia pesante la croce delle persone che si trovano a vivere una perdita significativa. Davanti al senso di smarrimento e di solitudine colui che vive l’esperienza del lutto deve riprendere il cammino utilizzando quello che ha nello “zainetto”, che sono le risorse di questa persona che per alcuni sono risorse fisiche. Se la persona si sentisse confusa, delusa da Dio perché non ha ascoltato le sue preghiere, la tortuosità del cammino si complica. Se invece la persona in lutto ha delle risorse interiori importanti, ha una sana autostima, ha amici attorno a sé, è una persona volitiva e determinata, ha una dimensione di fede significativa, queste risorse la/lo aiutano ad affrontare la difficoltà del cammino in una maniera speranzosa». 

Come possiamo diventare “buoni consolatori” capaci di confortare amici, parenti che hanno perso una persona cara? 

«Innanzi tutto sarebbe sempre utile lavorare su di sé. La piattaforma da cui parte ogni forma di apertura agli altri, a Dio e alla vita, nasce dalla propria realtà personale. L’auto aiuto si rivela fondamentale come importanti sono anche gli incontri formativi e i corsi sull’arte dell’ascolto. Occorre saper gestire in maniera costruttiva i sentimenti, perché dinanzi al dolore vengono a galla tanti sentimenti, pianto, paura di affrontare da soli il futuro, tristezza, senso di colpa per essere vivi, rabbia per le ingiustizie della vita. Se il soggetto ha lavorato su questi sentimenti anche attraverso l’aiuto di uno psicologo, è più capace di aiutare gli altri»

Uno degli aspetti più drammatici di questa tragica pandemia che sta travolgendo il mondo, è che le vittime del Covid-19, oltre che alla sofferenza fisica del virus, subiscono anche lo strazio di un addio senza l’estremo conforto per i propri cari. Alcuni medici hanno benedetto i moribondi, facendo loro un segno di croce sulla fronte. Ci lascia una Sua opinione al riguardo? 

«Sì, questo è un evento tristissimo per coloro che sono morti in queste circostanze. Questi sono lutti o addii incompiuti, ci sono tante cose non dette e non fatte, c’è il rimorso per quello che è accaduto. È chiaro che i medici e gli infermieri hanno dovuto assumere tanti ruoli, non solo quelli dettati dalla medicina, ma anche quelli dell’umanità, perché erano le uniche persone presenti all’interno delle terapie intensive. Se non possiamo più fare niente per le persone che sono andate via, possiamo ancora fare qualcosa per quelle che restano. Permettere loro di parlare di questi sentimenti o con lo psicologo o con un gruppo di auto aiuto, dove hanno l’opportunità di parlare con altre persone, che hanno vissuto la stessa esperienza, facendo nascere in tal modo una forma di solidarietà. Qualcuno si rivolge al sacerdote o partecipa a un gruppo di preghiera. Tutti modi per sublimare il dolore o per trasformare il senso di rammarico e il senso di colpa in una riconciliazione con quello che non possiamo controllare. Infatti, l’unica sicurezza che abbiamo al momento è l’insicurezza. Viviamo una vita in sospeso, in cui non possiamo programmare nulla, perché abbiamo un nemico invisibile che si chiama Covid-19, che si annida nei luoghi più impensati. Dal virus dobbiamo difenderci per tutelare la vita. Per salvaguardare la salute, per contrastare il pericolo di morte siamo costretti ad andare contro il Vangelo, nel senso che il Vangelo predica la vicinanza, la prossimità, il contatto umano». 

Quest’anno il 2 novembre, giorno dedicato alla commemorazione dei defunti, inevitabilmente acquista una valenza particolare. Che cosa ne pensa? 

«Certamente, lavoro in un hospice e lo scorso marzo, aprile ho dovuto presiedere a delle piccole cerimonie di addio di sette minuti, che non si potevano fare all’interno della camera mortuaria ma fuori, all’aperto, sotto gli alberi, con pochi familiari. Tutto questo per cercare di “umanizzare” l’addio, non essendo permessi i funerali. Dobbiamo pensare che abbiamo fatto un anno di digiuno dalle nostre abitudini, dai riti di consolazione, che ci hanno accompagnato per cercare di viverli semmai nel silenzio, umilmente. Questa umiltà ci ricorda purtroppo che non siamo noi ad avere il controllo della natura, dobbiamo soggiacere alle sue leggi e finché anche la scienza non ci dà una mano, in questo momento, la fede, la speranza e l’amore sono le forme di solidarietà che uniscono le persone ferite. onorando il ricordo dei morti e cercando di fare tesoro del dono del tempo, che abbiamo ancora per contribuire a realizzare il nostro progetto di vita, di solidarietà e di salvezza».