“E’ straziante non potersi più vedere”, in Rsa sono tempi duri

C’è una mancanza di prospettive: quello che inizialmente sembrava un sacrificio di qualche mese sta diventando uno stile di vita. Gli anziani sono una delle categorie più colpite”. A parlare è Sara, il cui padre, 71 anni, malato di Alzheimer, si trova in una Rsa in Valseriana. Lui il Covid l’ha preso, anche se fortunatamente in forma leggera, solo febbre, ma si porta ancora gli strascichi di quel periodo: “In otto mesi ha perso diciotto chili e, se prima camminava, ora è sulla sedia a rotelle. Se riguardo le nostre foto assieme, a fine febbraio c’è n’è una in cui lo si vede mentre sta camminando con le mani dietro la schiena, ora invece davanti a noi c’è un uomo magrissimo in carrozzina. Ha avuto un calo psicofisico non di poco conto: il medico ci ha detto che il Coronavirus ha causato un peggioramento repentino della sua malattia. Il mio dubbio da figlia è che oltre al danno fisiologico del Covid, questo peggioramento repentino sia successo anche per la situazione di isolamento che si è trovato a vivere. Non è un’accusa, ma una constatazione che abbiamo fatto, anche confrontandoci con altri parenti che hanno i familiari nella struttura”.

Suo padre si trova nella struttura da dicembre 2018 (prima uno dei figli dormiva a casa sua, poi la frequenza di un centro diurno, il turn over di badanti e infine nella RSA in cui si trova tutt’ora), ma fino al lockdown Sara e i suoi due fratelli erano una presenza costante giornaliera: tutte le sere lo mettevano a letto; fino alla domenica precedente alla chiusura avevano fatto un giro a Bergamo; una sera a settimana uscivano a fare una passeggiata. “A marzo ci si è trovati a non potersi più vedere e sentire periodicamente. Poi nei mesi estivi si era ‘guadagnata’ la possibilità della visita in presenza, venti minuti a settimana, a distanza, dietro un vetro. E ora di nuovo si è chiuso tutto, un ulteriore passo indietro motivato dalla questione sanitaria. Ci preoccupa non potergli essere vicino: era un valore aggiunto. E’ straziante non potersi più vedere”.

Sara sottolinea una certa collaborazione ed attenzione da parte degli operatori della
struttura per quanto riguarda la comunicazione con i familiari, anche se a livello minimo: “Non ci si è attivati con formule un po’ più personalizzate per i singoli ospiti. Garantiscono a tutti la stessa
cosa, programmata secondo il loro calendario settimanale, ma manca la libertà di poter
videochiamare e quindi vedere il proprio caro in fasce orarie più elastiche e con più frequenza
. Se nel momento programmato il proprio familiare non sta bene o dorme, ci si gioca per una settimana la videochiamata. Inoltre tutto ciò non va a sostituire il rapporto familiare. La qualità della vita di mio padre è cambiata notevolmente: la struttura prima dell’emergenza Covid aveva una buona programmazione settimanale di attività, anche grazie al supporto dei volontari, attività ora azzerate: per le animatrici ora il lavoro è diventato gestire le videochiamate con i parenti degli ospiti. Inoltre i tempi degli accudimenti sono diminuiti poiché non hanno né energie né risorse necessarie. Non ce l’ho con la struttura: sono tutte nella stessa situazione. Hanno fatto fatica a garantire il livello e lo standard del personale non garantisce i tempi necessari di accudimento. Ad esempio, per il momento dei pasti, noi facevamo a turno per essere presenti e facevamo assaporare tutti i gusti a mio padre, era un momento di cura e di attenzione. Ora il personale in mezz’ora di tempo deve imboccare tre persone, non c’è più quella personalizzazione che era possibile prima. Le Rsa si sono ritrovate sole a gestire una situazione di emergenza, ma rispetto a marzo la situazione è in qualche modo diversa. Credo che un tentativo di gestire il tutto trovando altre soluzioni poteva essere fatto, ma nessuno se ne è assunto la responsabilità, anche se capisco che non si volesse rischiare”.

E aggiunge: “Manca la spontaneità e intimità della relazione: venti minuti a settimana di videochiamata, difficile da gestire per la tipologia di utenza, pertanto poco significativa. Loro sono davvero rinchiusi senza possibilità di scelta e senza poter del tutto capire cosa sta succedendo. Spero sempre che la demenza di mio padre in qualche modo lo protegga: noi gli spieghiamo ciò che sta succedendo, ma non capisce la gravità della situazione. Lui nonostante la malattia era molto socievole. Anche quando lo chiamiamo, facendo una videochiamata di gruppo, ci sorride. Facciamo gli screenshot di quei sorrisi”. E conclude: “Questa situazione ha fatto venire a galla delle lacune nell’organizzazione della struttura che già erano presenti. Mi rendo conto però che la situazione in questo periodo è così dappertutto, spesso il rapporto tra il numero di pazienti e il personale è al limite. Purtroppo le categorie più deboli e fragili stanno pagando questa situazione. Ma mi continuo a chiedere noi familiari cosa possiamo fare”.