Covid-19, monsignor Derio Olivero a Molte fedi: “Ho sfiorato la morte. La fede è la mia ancora”

Foto Costanza Bono - Sir

Ammalarsi di Covid-19, esperienza da non augurare a nessuno, sicuramente cambia la vita. In questo caso la guarigione è da paragonarsi a una rinascita. È quello che è accaduto lo scorso marzo a Mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, il quale racconta la sua personale tra­versata del deserto, nel volume, scritto a quattro mani con Alberto Chiara, “Verrà la vita e avrà i tuoi occhi”, (San Paolo 2020, Prefazione di Matteo Zuppi, pp. 144, 12 euro). 

In questo piccolo ma prezioso libro, Mons. Olivero, da noi intervistato, dimostra come anche da una drammatica esperienza di contagio, si possa cogliere un formidabile sguardo sul futuro e restituirlo ai lettori. 

Nel reparto di rianimazione dell’ospedale Edoardo Agnelli di Pinerolo, schiacciato dal Covid-19, il Vescovo è stato a un passo dalla morte. 

“Posso dire di aver assaggiato l’aldilà. Dio non era una parola o un pensiero, ma una presenza avvolgente, rassere­nante, luminosa, calda. E accanto a me percepivo la presenza materna della Vergine”. 

Mons. Olivero  potrà dire di avere scon­fitto definitivamente il coronavirus quando riuscirà a salire sul Rocciamelone, come ha fatto nell’estate 2019 e ancora nell’estate precedente, e il suo desiderio ha l’antico sapore del pellegrinag­gio, perché lassù vi è il santuario mariano più alto d’Europa. La chiesa in vetta, infatti, è intitolata a Nostra Signora del Rocciamelone molto frequentata dagli escursionisti in particolare in occasione della festa della Madonna della Neve, che si svolge ogni anno il 5 agosto.

Mons. Olivero, il titolo del volume fa pensare a quello della raccolta postuma di poesie di Cesare Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Il Suo è un riferimento voluto?

«Sì, la poesia di Pavese parla in un modo tragico della morte, come tua compagna, sorda e insonne. Effettivamente ho passato un periodo con questa compagna, sorda, perché tu vorresti tanto vivere e non sente il tuo grido, insonne, perché non se ne va via mai e resta al tuo fianco per tutto il tempo. Ho avuto questa immagine quando sono stato a contatto con la morte. Ho avuto la grazia di non morire, ho ritrovato la vita come un regalo, che ai suoi, non ai “tuoi occhi,” quelli che la vita, il mondo, gli altri, Dio, ci offrono con la loro presenza».

Nel libro “ricorda e rivive le ore, i gior­ni, le settimane interminabili di questa Quaresima, Settimana Santa e Pasqua di vera risurrezione che ha vissuto e che ci fa vivere con lui”, come sottolinea nel testo Mons. Zuppi. È vero dunque, che questa drammatica esperienza è paragonabile a una Quaresima che porta alla Pasqua, cioè alla rinascita? 

«Sì, mi hanno fatto riflettere i riferimenti simbolici, nel senso che sono stato quaranta giorni, più o meno il tempo della Quaresima, in ospedale. Quaranta giorni, come quelli che Gesù ha trascorso nel deserto. Sono stato intubato, poi estubato, poi tracheotomizzato, l’ultimo atto, quello che si fa in ultimo, come “extrema ratio”, proprio di Venerdì Santo. Ho iniziato a migliorare Lunedì dell’Angelo, il giorno di Pasquetta. Tutto ciò mi ha portato a pensare che è vero che tutti noi camminiamo dietro Gesù Cristo per risorgere con Lui, giorno dopo giorno, fino all’ultimo giorno, dopo la morte. Ora siamo di nuovo in piena pandemia, il libro è stato scritto con Alberto Chiara quando sono uscito dall’ospedale, credevo che tutto questo fosse dietro alle spalle. Invano. Mi auguro che le cose che ho imparato possano aiutarmi a sostenere altri in questo momento difficile. La forza della fiducia in Dio e la forza delle relazioni, in questo caso si rivelano fondamentali, alla luce di quella brutta esperienza». 

Concorda con la riflessione di Mons. Zuppi, il quale scrive che bisogna sì ricominciare,  non come prima, ma cambiando paradig­ma. Ripen­sare le relazioni e ripartire da lì  dando un senso a parole logore come diritti, democrazia, partecipazione. Lei indica dodici parole da mettere “nella nostra bisaccia”. Quali sono quelle più pertinenti in piena seconda ondata da pandemia da Covid-19? 

«Quelle che ora ritengo siano più importanti sono “fiducia e “dono”. Fiducia, perché siamo in una situazione di grande precarietà e incertezza. In questa incertezza fatichiamo a trovare appigli e motivi per sperare. Allora noi credenti dobbiamo essere “generatori di fiducia”. La seconda parola è “dono”, nel senso che questa situazione non è solo da pandemia a causa di una malattia, ma è anche di profonda crisi economica. Da questa tempesta ne usciamo soltanto sporgendosi un po’ più là del dovuto, questo è il dono, la capacità di ciascuno di noi di spingersi oltre il dovuto, per far sì che insieme possa accadere qualcosa di buono». 

Un nuovo Rinascimento dopo tutto questo, è possibile? 

«Certo, lo dico in due accezioni. Nell’accezione cristiana, il tempo è sempre un kairos “il tempo designato nello scopo di Dio”. C’è sempre una buona opportunità, anche quando tutto sembra remarci contro, c’è sicuramente lì dentro una buona opportunità, perché il Signore sta lì, nel tempo e ci apre una strada. Quella è la grande opportunità che il Signore ci concede. L’altro punto di vista, laico, è che davvero era in corso un cambio di paradigma ante Covid-19, intendo dal punto di vista culturale. Era in crisi il paradigma precedente ed era in corso un cambio. Tutto sommato, tutti noi andavamo avanti indifferenti. Questa pandemia ci chiede: Quale Umanesimo dobbiamo ricostruire, adesso che la società sta andando davvero in frantumi?”».

Che cosa ne pensa dei cosiddetti “negazionisti”, che con folle ostinazione, continuano a negare l’esistenza del virus anche quando si ammalano? 

«Credo che il negazionismo nasca dalla paura. Quando si è bambini, si nega il buio chiudendo gli occhi. Il negazionismo è figlio di quella paura, del negare l’evidenza».

C’è un’immagine rimbalzata sui social che resterà tra le icone della pandemia. All’ospedale Valduce di Como una ragazza per ore in piedi sull’auto, per vedere la madre lì dentro ricoverata. Cosa ne pensa?

«Per i malati di coronavirus, una delle sofferenze più grandi è la solitudine. Io, come tanti altri, sono stato quaranta giorni senza vedere nessuno. Lo stesso accade per chi è fuori, aspettando notizie di un congiunto. Strappa l’anima sapere che c’è tua madre, tuo padre o tuo fratello che soffre e non lo puoi aiutare, essergli vicino, soprattutto quando iniziano a dirti dalla terapia intensiva che si sta aggravando. Ho visto accanto a me persone morire e chi sta fuori non può entrare per dare un ultimo saluto, stringere la mano per l’ultima volta. “Che strazio non poter essere accanto a mia madre che sta morendo”, è la frase che mi è stata rivolta pochi giorni fa. La mia esperienza mi fa provare tanta gratitudine, quando sono uscito dall’ospedale per la prima volta ho visto il cielo, mi è sembrato un regalo troppo bello. Era il 5 maggio, il viale davanti all’ospedale era pieno di alberi verdi, che bella visione che credevo di non vedere più. Provo inoltre gratitudine per tutti gli operatori sanitari, medici e infermieri e anche per chi mi è stato vicino anche da lontano e ha pregato per me. Quando mi è stato restituito il cellulare ho scoperto le tante iniziative per me, come le catene di preghiera, grazie ancora. Grazie di questo dono che è la vita». 

Prima di salutare Mons. Olivero, gli auguriamo di salire la prossima estate sul Rocciamelone e anche sul Monviso, “la montagna da dove vengo. Sono nato a Cuneo, il Monviso, da dove nasce il Po, è a due passi, ed è una montagna spettacolare. Spero davvero di andarci la prossima estate, quest’anno non ho potuto. I medici mi hanno ammonito in tal senso: “Non ci provare!”. Confesso che un po’ di montagna l’ho fatta, un po’ più bassa però”. 

INFO: Mons. Derio Olivero parteciperà lunedì 30 novembre alle 20,45, alla rassegna “Molte fedi sotto lo stesso cielo”, l’incontro sarà trasmesso in streaming dal sito e sui canali social. https://www.moltefedi.it/

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