E giunge la pandemia, silenziosa, nei corpi e nei giorni. E li lascia nudi, scoperti. E apre crepacci e fenditure di domande e di incertezza. Apre varchi esistenziali strettissimi, interrompe pratiche e quotidianità consolidate, rodate, potenti. Ora non più: sono sospese, rotte, alcune per sempre.
Resta aperta (scandalosa?) la domanda del senso, quella su ciò che vale, su ciò che resta: di quanto abbiamo realizzato, coltivato nel tempo, di ciò che siamo andati cercando e abbiamo difeso, di quella che è stata la nostra speranza. È la domanda del senso e del segno: di un fare, di un applicarci, di un operare e progettare; anche del realizzare insieme ad altri. Cosa vale, cosa resta dei sogni e delle aspirazioni nostre? E delle nostre memorie e delle esperienze?
È un tempo, quello aperto dalla pandemia, nel quale molte donne e molti uomini sono condotti, e costretti, a chiedersi cosa può essere consegnato per nuovi inizi, per nuovi cammini. E forse, prima ancora, a chiedermi cosa può resistere, cosa può aiutare per stare nei giorni della prova. Cosa ci resta per provare a stare prossimi, accanto, gli uni agli altri, le une alle altre? Cosa vale la pena per provare a tenere gli occhi aperti, in piedi controvento? Che è la chiamata che certi tempi ci fanno, come indicava Simone Weil nella tormenta della guerra e dell’odio.
Come stare nei giorni, come stare accanto, come lasciare? Si disegnano questioni che non poche volte vengono sostituite, o chiuse, dal concentrarsi sul dove si vuole andare, su cosa vi vuole raggiungere, su cosa vi vuole conquistare e controllare, e potere. Ma così l’impotenza, l’accoglienza, l’incertezza, la non certa efficacia, la mancanza diventano dimensioni della vita non riconosciute, rifuggite, avvertite come pericolose. Perché sospendono il procedere verso obbiettivi e realizzazioni, il cammino già previsto, e l’ordine che costituisce.
Cosa resta quando devi stare nei giorni, stare accanto, lasciare? Il dove vuoi andare non te lo dice. Devi, piuttosto, cercare da dove vieni. Devi cercare ciò che ti ha accolto, coltivato, costituito; ciò che ti è stato consegnato: cosa valeva? Cosa era l’essenziale nelle storie e nelle persone cui devi il meglio di ciò che sei? Quali i sogni che ti hanno “preso”, e le consegne? Quali le attese di chi ti ha chiamato, ha sperato in te, ti si affida?
Da dove viene il nostro fare, il nostro incontrare, il nostro pensare, il nostro sentire? Da dove? Da chi? Dove andare è difficile definirlo in tempi di pandemia: sia nei progetti personali, familiari che in quelli comunitari, di convivenza, nei progetti politici. In questi spesso ci si rifugia nel corto circuito delle “ripartenze”, o nelle illusioni del “ripristinare”. Dove andare sarà, anzitutto, definito via via dal ristabilire legami ed equilibri, dall’“organizzare” il sentire e la forma del camminare insieme; in oasi di fraternità, per dirla con Edgar Morin. Dove andare chiede un nuovo e forte sì alla vita.
Da dove viene quel che siamo e facciamo? Dove origina? Dove la fonte? Questo serve chiederci oggi, questo va indagato, questo, insieme, dobbiamo aiutarci a trovare. Trovarne riflesso, trovarci riflessi nell’origine. Allora, incompiuti e non innocenti, potremo ritrovarci comunque attesi e capaci di rigenerare legami fraterni, e inizi di cammini impegnativi. Che non potranno che essere “anticipati” in stili di vita personali e comunitari, feriali e generosi.
Occorrerà trovare il gusto della parola: quella che cerca la vita, la domanda, la verità; quella che disegna tra noi desiderio e legame, patto e sogno condiviso; quella che sceglie, che osa, che impegna alla giustizia. Ma insieme occorre trovare il gusto del fare, del fare le cose bene, del fare cose buone, del fare giustizia. Sono i gesti che ci dispongono, e quasi anticipano quel che sentiamo e crediamo. Nel nostro fare mostriamo la nostra disposizione, la nostra presenza, l’attenzione e la fedeltà alla realtà che portiamo dentro. Alla realtà dell’altro in modo particolare.
I gesti, il nostro “fare” nel loro “anticipo”, ci svelano, anche a noi stessi. Possono dire, a volte dicono, distanza funzionale, concentrazione sulla tecnica, ritegno e ristagno nel ruolo, calcolo e utilità in raffinato cinismo, previsione di profitto. I gesti, anche nel fare organizzato, d’esercizio, o economico, a volte però interrompono (irrompono e debordano) le logiche “scontate” e si fanno prossimità, sosta, incontro, cura. Come a mantenere una promessa, a tornare all’origine.
Gesti in un fare che trova l’origine: la destinazione, il riconoscimento, la pietà, l’ospitalità, la generatività.
Un fare dove, certo, faccio la mia parte, rispondo e non mi sottraggo, ma dove con altri pure indico e inizio strade, e condivido possibilità da aprire. Non per forza per noi, subito, ma per altri che verranno. Che stanno nascendo, crescendo.
Un fare che non è solo un fare, ma è un fare avvenire.