Bonifacio Ravasio, sopravvissuto a Buchenwald: i ricordi custoditi dal nipote

Il peso della memoria che passa da nonno a nipote. Anche oggi, a cinque anni dalla sua scomparsa, la storia di Bonifacio Ravasio, sopravvissuto al lager di Buchenwald, rimane viva attraverso l’impegno del nipote, Leonardo Zanchi, vicepresidente della sezione bergamasca dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti). 

«Mio nonno materno è nato in una famiglia contadina di Alzano Lombardo, nella quale si respiravano idee socialiste – racconta Leonardo Zanchi, 24enne di San Pellegrino -. Influenzato dalla figura di Francesco, padre di suo padre, cresce in un clima antifascista». 

Nel 1943, all’età di 16 anni, Bonifacio inizia a lavorare per STIPEL, una società telefonica. «Consegnava gli elenchi telefonici a Bergamo. E all’interno dei plichi, che recapitava porta a porta, inseriva volantini contro Mussolini e il fascismo. Ci furono tante segnalazioni, ma non venne mai licenziato».

Un giorno del 1944, il nonno di Bonifacio, Francesco, viene convocato presso la sede dei fascisti di Alzano Lombardo. «In paese ci si conosceva tutti: se qualcuno non era allineato con il regime lo si sapeva. Più volte il nonno Francesco è stato convocato nella sede dei fascisti locali dove, a suon di botte, tentavano di fargli cambiare idea o di metterlo a tacere. Bonifacio lo vedeva tornare a casa martoriato». E quel giorno decide di seguirlo di nascosto. «Irrompe nella caserma, scatena una rissa, aggredendo uno dei fascisti, e salva il nonno». 

Ricercato dai repubblichini, Bonifacio scappa a Tarcento (in Friuli-Venezia Giulia), «su consiglio di suo padre, perché là avevano dei parenti che lo nascondono nella cantina della loro osteria. Poi mio nonno capisce che il rischio che questa famiglia corre è troppo grande e allora tenta una via percorsa da molti pur di scampare l’arresto: si fa reclutare dall’Organizzazione Todt, che era alla ricerca di manodopera nei Paesi occupati, promettendo, in cambio, stipendio, vitto e alloggio. Oltre a quelli che si facevano assumere per necessità economiche, c’erano molti partigiani e antifascisti, come mio nonno, che tentarono di farsi reclutare dalla Todt pensando che né i fascisti né i nazisti sarebbero venuti a cercarli lì. Alcuni effettivamente la fanno franca; altri, come mio nonno, no».

 Bonifacio con i nipoti (Giacomo e Leonardo, a destra)

Il 10 luglio 1944 la Gestapo compie un rastrellamento proprio a Tarcento: tra gli arrestati, oltre a Bonifacio, c’è anche il clusonese Antonio Savoldelli, che Leonardo ha incontrato nel 2019, raccogliendone la testimonianza. «La Todt li aveva venduti come lavoratori schiavi, così da non dover corrispondere il compenso promesso. Una volta nelle carceri di Udine, i tedeschi vengono a sapere che mio nonno era già ricercato dai fascisti di Bergamo e Alzano. E a quel punto la sua posizione si aggrava».

Il 31 luglio Bonifacio e Antonio, «che non ha compiuto alcuna azione antifascista», vengono deportati: arrivano a Buchenwald, nel cuore della Germania, il 3 agosto, dopo un viaggio in treno vissuto in condizioni disumane. Quando Bonifacio entra nel lager ha 17 anni: lo rasano, spogliano e gli tatuano sull’avambraccio un numero. È la matricola 33843. Sulla divisa, il triangolo rosso, usato per contraddistinguere i deportati politici. «Fame, maltrattamenti, impiccagioni e ogni tipo di privazione erano all’ordine del giorno a Buchenwald. C’erano anche dei prototipi di camere a gas: gli ebrei venivano eliminati lì dentro. I deportati vivevano in 1200 nella stessa baracca, arrangiati su quattro file di letti a castello. Bastava un piccolo incidente per scatenare le rappresaglie naziste: dopo aver radunato tutti i deportati nella piazza principale, ne sceglievano a caso una trentina, uccidendoli davanti agli altri come esempio». 

Il 5 settembre del 1944, assieme ad altri 200 prigionieri, Bonifacio viene trasferito ad Hadmersleben, uno dei sottocampi di Buchenwald. «Una miniera di sale nella quale era stata spostata la produzione bellica, proprio per sfuggire ai bombardamenti degli alleati in superficie. I deportati erano costretti al lavoro forzato per fabbricare alcuni pezzi delle ali dell’aereo Messerschitt Bf 109».

Nell’aprile del 1945, con gli americani sempre più vicini, i nazisti evacuano il campo: i prigionieri vengono incolonnati per la marcia della morte. «Camminavano per giorni, senza cibo e con poco riposo, fino allo sfinimento: chi non ce la faceva, veniva fucilato seduta stante». Raggiunto il fiume Elba, i prigionieri sono caricati su dei barconi per la seconda parte del viaggio: nei pressi di Lovosice (Repubblica Ceca), l’8 maggio 1945, incrociano i soldati russi. «Ho rintracciato il diario di Edouard Desonai, un deportato belga, prigioniero a Hadmersleben, che pubblica le sue memorie: annota tutti i paesi in cui sostano durante la marcia e poi descrive la navigazione. Probabilmente erano diretti al ghetto di Terezín, che è molto vicino a Lovosice». Il viaggio si interrompe perché il contingente russo inizia a sparare contro i nazisti, provocando l’affondamento di un barcone. «Quelli che avevano pensato essere rinforzi dell’esercito tedesco sono in realtà deportati, ormai ridotti a corpi scheletrici. Bonifacio sopravvive grazie all’intervento di Sasha, un giovane soldato russo che viene ucciso da una pallottola mentre trasporta mio nonno a riva».

Il 10 maggio, dopo due giorni di coma, Bonifacio si risveglia in un ospedale da campo sovietico. «Il viaggio di ritorno, nell’Europa devastata, è stato complicato e logorante. Durante il tragitto, Bonifacio incontra un ufficiale americano che gli dice: “Hai la fortuna di tornare a casa, ragazzo: non raccontare mai quello che hai visto, perché ti prenderebbero per pazzo”». Al suo arrivo a casa, Bonifacio pesa 37 chili: i suoi genitori lo riconoscono a fatica. «È stato difficile anche per lui. All’inizio, come molti altri sopravvissuti, vive un momento di crisi, segnato dal silenzio e dalla continua e dolorosa rievocazione mentale del periodo nel lager. Successivamente, anche in nome dei compagni morti, sente il bisogno di raccontare». 

Prima ai familiari, poi in pubblico. «Alle conferenze lo accompagnavo sempre: iniziava a parlare e poi, quando la voce gli si rompeva per l’emozione, proseguivo il racconto». Nonostante la scomparsa di Bonifacio nel 2016, Leonardo continua a portarne avanti il ricordo. «È il mio modo di fare resistenza contro i nuovi fascismi. I deportati politici ebbero il coraggio di compiere una scelta, quella di opporsi contro i regimi. Esattamente come loro, ciascuno di noi è costantemente chiamato a fare una scelta: le nostre decisioni dicono chi siamo e rivelano il nostro modo di essere cittadini nel presente. Scegliere da che parte stare è un compito quotidiano. E conoscere il passato di cui siamo eredi ci aiuta a farlo più consapevolmente».