Nel Recovery Plan diamo futuro alla pace. Non alle aziende che esportano morte

Si raccomanda di “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.
Così il testo licenziato dalla Camera qualche giorno fa. Parole in burocratese di facile traduzione: il Governo Draghi pare intenzionato a sostenere la già fiorente industria bellica italiana con i fondi del Recovery Plan. Con il totale disaccordo della Rete per il Disarmo: “non possiamo accettare che le basi da cui far ripartire il nostro Paese siano anche armate. E che ancora una volta si privilegino gli interessi delle industrie belliche, anziché affrontare con nuovi e più sensati strumenti le sfide epocali che abbiamo di fronte”.

Dodici progetti concreti

La stessa rete nelle scorse settimane aveva elaborato un documento con 12 progetti come contributo al processo di formazione del programma “Next Generation Italia”. Un testo che ha messo in fila alcune priorità: investire nel sistema sanitario pubblico universale, nella scuola, nella messa in sicurezza del nostro territorio, nell’industria e nella produzione pulita, sostenibile e civile e nel lavoro stabile, sicuro e con diritti, nell’economia disarmata, nella cooperazione e nella solidarietà, tanto dentro il nostro Paese quanto esternamente con partenariati a sostegno dei Paesi e delle popolazioni in difficoltà. Le proposte del documento (potete leggerlo su www.retepacedisarmo.org) sono chiare: superare la visione nazionale, per una politica estera che guardi all’Europa come “potenza di pace”; la riconversione per un’economia disarmata e sostenibile; la difesa civile non armata e nonviolenza; il servizio civile universale; l’educazione alla pace dall’infanzia all’università. 

La pace e il realismo di un’utopia

E’ difficile non essere d’accordo con queste proposte. Eppure si ha l’impressione che rimangano sempre nel limbo delle buone intenzioni perché la politica, si sostiene, deve occuparsi di cose serie. Queste non lo sono? Perché? Come mai è così difficile passare dalla visione di pace – che tutti sentiamo importante custodire, anche solo per garantire un futuro  – ad un progetto politico condiviso?

Proiettili italiani in Birmania: come mai?

Mentre sono attive le manovre dell’industria bellica italiana per mettere le mani su una parte dei fondi europei destinati alla Next Generation, Amnesty International e molte le organizzazioni della società civile italiana chiedono chiarimenti all’azienda Cheddite sulla vendita di munizioni utilizzate dai militari in Myanmar per reprimere brutalmente le manifestazioni contro il golpe militare. Hanno scritto all’azienda Cheddite Italy S.r.l., con sede a Livorno, per chiedere chiarimenti in merito al ritrovamento a Yangon, in Myanmar, di un bossolo di una cartuccia sparata dalla polizia locale contro un’ambulanza che trasportava dei feriti.  Dalle informazioni diffuse dal quotidiano locale “The Irrawaddy” il bossolo riporta chiaramente la scritta “Cheddite” e il calibro 12. Altri bossoli della stessa Cheddite sono stati utilizzati dalle forze di sicurezza contro i manifestanti nei giorni successivi. In seguito altre cartucce sono state ritrovate in altre località del Paese come documentano numerosi scatti postati sui social media. Alcuni analisti sostengono che si tratti di triangolazione: l’azienda ha venduto i proiettili a qualcuno che poi le ha venduti al Myanmar.  Non è la prima volta che bossoli e armi italiane sono ritrovati in Paesi in guerra o che violino, in modo sistematico, il rispetto dei diritti umani. Eppure c’è una legge – la 185 del 1990 – che mette paletti ben precisi. Continuamente aggirati dalle lobby degli armamenti. Nel caso della Birmania poi esiste un vero e proprio embargo imposto dall’Unione Europea nel 1991 e reso ancora più severo nel 2000. 

Dove far nascere il mondo di domani  Birmania, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto, Turchia: è lunga la lista dei Paesi a cui l’Italia vende armi e sofisticati prodotti militari. “Non c’è un mondo di ieri a cui tornare, ma un mondo di domani da far nascere rapidamente”: così è scritto nell’introduzione al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Facciamo in modo che davvero – e non solo con slogan retorici – il mondo di domani per garantire un future alle nuove generazioni sia basato, finalmente, su uno sviluppo civile e non militare.