“Mordere la nebbia”, guardare lontano. Intervista ad Alessio Boni

“Nessun limite eccetto il cielo” diceva Miguel de Cervantes nel suo “Don Chisciotte”, e Ulisse si spingeva persino più in là, sfidando gli dei e il destino, giacché “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. 

Alessio Boni, celebre attore di cinema, teatro e televisione, a 15 anni, nonostante la nebbia fitta, doveva e voleva percorrere in sella alla sua Vespa la strada lungo il lago d’Iseo, attraversare il ponte e raggiungere l’al di là, che gli era negato da quella coltre inespugnabile, mordendo la nebbia.  

“Mordere la nebbia” (Solferino 2021, Collana “Tracce”, pp. 208, 17,50 euro) è il titolo del libro dell’attore dedicato “A Nina e Lorenzo”, che racconta a suo figlio la storia della sua vita. Una carrellata di avvenimenti, che hanno condotto Boni, nato il 4 luglio 1966 a Sarnico in provincia di Bergamo, il padre Ignazio, artigiano, e la madre Roberta, che lavorava nel negozio di piastrelle della famiglia, secondo di tre figli, a vincere numerosi premi tra cui il Nastro d’Argento (2004), il Globo d’Oro (2005), il Golden Spike Award (2014), grazie alle sue interpretazioni. 

Mordere la nebbia

Abbiamo intervistato Alessio Boni, che ha vinto il Premio del Senato della Repubblica (2019) Senato&Cultura, ed è stato Goodwill Ambassador dell’Unicef Italia dal 2005 al 2012. Dall’11 aprile, su Rai 1, Alessio Boni è uno dei protagonisti della serie “La compagnia del cigno 2”. 

«In un momento come questo dove gli adolescenti sono disillusi, spiaggiati, amareggiati, è molto importante il messaggio che lancia la serie, che vede sette ragazzi, allievi del Conservatorio Verdi di Milano, che sono decisi a realizzare i loro sogni. Sette ragazzi, come le note di uno spartito, sette giovani autentici musicisti, ora anche attori. La serie fa comprendere quanto sia importante l’amicizia a quell’età di passaggio così delicata, quando non si è più ragazzini ma neanche adulti».

  • Alessio, Suo figlio Lorenzo è nato il 22 marzo del 2020, quando il nostro Paese stava vivendo i giorni più bui della pandemia da coronavirus. La tournée si è fermata e  durante il lockdown, osservando il volto di suo figlio, ha avuto modo di guardarsi indietro, interrogarsi su sé stesso e sulla strada che ha intrapreso finora? 

«È partito tutto da lì, lo sguardo puro, innocente di mio figlio mi ha posto questa domanda: “Che padre sarò?”. Le movenze di Lorenzo mi hanno riportato alla mia prima infanzia, si morde il labbro come facevo anch’io alla sua età… I suoi “pugnetti” in bocca quando ha un po’ di paura… assistere a tutto questo mi ha riportato a più di cinquant’anni fa, quando avevo due o tre anni. Poi, boom, all’improvviso, mi sono visto da fuori, a quando in sella alla mia “Vespetta” sulla costa del lago d’Iseo a 15 anni e mi trovavo a bordo lago, sotto un salice piangente, come ho scritto. Allora mi domandavo: “Ma la vita non può essere solo questo!”. Quella coltre di nebbia che avevo davanti a me, eravamo in autunno e la scuola era appena iniziata, mi faceva venire l’angoscia. Qualcosa c’era al di là dal lago, occorreva andare a prenderla, a conquistarsela. Come ho fatto. Quindi scrivere il libro è stato una sorta di autoanalisi, un dialogo con mio figlio, poi piano piano scrivendo ho ricordato gli incontri più salienti e significativi che ho avuto, che mi hanno reso ciò che sono. Mi hanno detto che questa formula sincera, diretta e onesta è premiante, il libro sta vendendo e la cosa mi fa molto piacere».

  • A proposito del lago d’Iseo, desidera parlarci della campagna di sensibilizzazione in difesa di questo bellissimo lago? 

«Sì, della campagna che viaggia sui social sono testimonial insieme a Devis Doris, deputato bergamasco del Movimento 5 stelle.  Il nostro obiettivo è tenere alta l’attenzione sulla frana del Monte Saresano. Da oltre un secolo dal Monte Saresano viene estratta la marna da cemento attraverso un cementificio che si trova a Tavernola, direttamente sul lago. Ciò causa il pericolo connesso alla frana e tutto ciò rischia di passare sotto silenzio. Ecco perché l’unico modo per salvare il lago e, soprattutto, per mettere in sicurezza decine di migliaia di persone che vivono sul Sebino, è tenere alta l’attenzione. Quindi #SalviamoilLagoDiseo. Come? Basta un foglio su cui scrivere l’hashtag #SalviamoilLagoDiseo, scattare una fotografia, pubblicarla sui profili Facebook e Instagram. Ovviamente la speranza è che l’hashtag #SalviamoilLagoDiseo diventi sempre più virale attirando l’attenzione sulla campagna». 

  • È vero che il comandamento bergamasco “móla mia”, ovvero “non mollare” non darsi per vinti, è stato e continua a essere la luce guida della sua esistenza? 

«Sì, se pensi di essere arrivato, è proprio in quel momento che non devi mollare, altrimenti rischi di perdere la presa. Questo me l’hanno fatto capire gli scalatori della mia terra, persone dure, “rocciose”, che dormono all’addiaccio, sotto le stelle e al freddo. Quando arrivi in vetta sei soddisfatto, ma si sa, una salita, presuppone sempre una discesa. Ed è allora che si deve fare più attenzione: quando scendi e manca un km per arrivare al tuo villaggio non bisogna commettere l’errore di lasciarsi andare, cioè deconcentrarsi. Perché è lì che ti fai male. Questo monito, questo comandamento, direi, fa parte di noi orobici, di noi popolo bergamasco». 

  • Quando ha capito che Sarnico, “il natio borgo selvaggio” le stava stretto, quasi quanto  quel sentiero che era già tracciato per lei da altri? 

«Come ho detto, a 15, 16, 17 anni avevo cominciato a scalpitare. In pratica quando volevo “mordere la nebbia”. Ma allora era una cosa inconscia, l’ho capito dopo, con la maturità. Volevo viaggiare, evadere, ma non sapevo come e dove. Quando si è così giovani basta un incontro per far nascere tutto. A quell’età si è come in balia degli eventi della vita. Da parte mia cercavo al di là di quella coltre nebbiosa. Quello l’ho sempre fatto. E continuo a farlo».

  • Nella vita gli incontri sono fondamentali, ma quanto è stato importante per la sua carriera ricordare la saggezza della propria terra che si nascondeva nel proverbio che suo padre le ripeteva sempre: “Volere è potere”? 

«È stato fondamentale, soprattutto all’inizio della mia carriera. Non a caso, una delle grandi svolte riguarda l’ultimo provino per  la parte da protagonista maschile della miniserie tv “La donna del treno” diretta da Carlo Lizzani. Era il 1998 e il grande regista mi chiese di farlo sorridere. Non sono un “barzellettiere”, uno che ama raccontare aneddoti comici. Quindi recitai uno scioglilingua bergamasco con la stessa intonazione che usava mia nonna Maddalena quando me lo diceva da bambino: “‘Hich ‘hach de ‘hoch ‘hech, che i ‘heca al ‘hul ‘hol ‘holer”. Significa “cinque sacchi di ceppi secchi che seccano al sole sul solaio”. Lizzani sorrise, la parte era mia. Da lì cambiò tutto, l’incontro con Lizzani è stata la mia genesi. Gli incontri professionali per me sono sempre stati e sono ancora oggi delle “iniezioni di fiducia”. Quindi per me è stata fondamentale la passione, la testardaggine e la capacità razionale per capire se ero davvero portato per questa professione». 

  • Quando ha capito che la sua carriera di attore era decollata? 

«Forse quando mi ha preso Giorgio Strehler dopo un provino, avevo ventotto anni. Lì ho capito che non avevo sbagliato il percorso che avevo scelto. Dopo “La meglio gioventù”, che ha vinto molti premi, anche internazionali, la grande svolta professionale. Non più provini, ma la domanda: “Signor Boni, vuole fare questa parte?”.  Questo cambia tutto per un attore». 

  • Con il Cesvi Onlus – Cooperazione e Sviluppo, associazione bergamasca, attiva da più di trent’anni in molti Paesi in via di sviluppo, è stato in Zimbabwe, Myanmar, Perù e in altri luoghi, finché nel 2016, a soli tre mesi dalle devastazioni dell’uragano Matthew, ha accompagnato una loro delegazione ad Haiti, per girare un documentario. Qual era l’atmosfera ad Haiti nel dicembre 2016? 

«Sembrava un girone dantesco. Ovunque ti giravi c’era desolazione, catastrofe. Non c’era acqua, non c’era cibo, la popolazione era arrabbiata, non solo perché affamata. C’era una grande atmosfera di negatività generale. Quello che più mi ha colpito è stato lo sguardo dei bambini, se sorridevano, quel sorriso non solo era tirato, ma non arrivava allo sguardo». 

  • Ha dedicato un capitolo del libro a Lesbo, “la frontiera dell’oblio” dove nel 2019 ha visitato la clinica pediatrica di Medici Senza Frontiere. Ce ne vuole parlare? 

«Anche qui gli occhi dei bimbi non avevano la luce del sorriso. Ma se ad Haiti la devastazione era stata causata dall’uragano Matthew, e quindi la colpa è da attribuire a una catastrofe naturale, a Lesbo la colpa è dell’Europa, della comunità europea che se ne lava le mani. È in atto un esodo di massa a causa di guerre, cambiamenti climatici. Ho parlato con un uomo, nella sua prima vita era un avvocato. E ora? Scartati dalla società, aspettando anche due anni per ottenere asilo politico. Non più persone, ma numeri. A Lesbo ho parlato con una psicologa infantile, che mi ha detto che tra i bambini di sette/otto anni ci sono stati tanti tentativi di suicidio. “Hanno perso la speranza nel domani”, ha detto la dottoressa».  

  • Se è vero che Tiziano Terzani diceva che l’uomo felice è chi si accontenta, che cosa sogna per Lorenzo, che rappresenta il futuro? 

«Spero di trasmettere a mio figlio libertà interiore e dignità. Spero che mio figlio abbia una passione nella vita, perché la passione ti dà un grande pungolo, un grande stimolo. Mi auguro inoltre che Lorenzo possa essere felice e soddisfatto dell’indirizzo che darà alla propria esistenza».