Ritorno a scuola: “I ragazzi hanno bisogno di incontrarsi e di ritrovare i riti della quotidianità”

È stata programmata per il 26 aprile la riapertura delle scuole. Una scelta, quella del governo, che ha riscosso il plauso e l’entusiasmo di genitori e insegnanti, ma anche molti dubbi e tante perplessità, dato che la paura della diffusione del virus resta ancora piuttosto alta. Al di là delle speranze e dei timori, però, il ritorno in classe segna la fine, almeno per ora, della didattica a distanza, che, diverse persone, come Rossano Sasso, sottosegretario al ministero dell’Istruzione, si augurano resti solo un ricordo. Una tematica, quella della Dad, spesso divisiva, che ha causato opinioni talvolta opposte e discordanti. Un metodo, quello dell’insegnamento online, che, secondo il professor Giulio Caio (formatore, educatore, già dirigente scolastico e già collaboratore con la cattedra di Pedagogia sociale presso l’Università degli Studi di Bergamo) è stato foriero di una certa creatività, ma che non può sostituirsi, per nessun motivo, a quello della didattica in presenza. 

Professor Caio, è positivo che i ragazzi tornino in classe?

Assolutamente sì. Tutti stanno vivendo la riapertura delle scuole con grande entusiasmo, con attesa e trepidazione. C’è un profondo bisogno di rincontrarsi, di ritrovare i riti di una quotidianità che caratterizza la bellezza della convivenza scolastica. È evidente, nei bambini e nei ragazzi, il bisogno e il desiderio di vivere la scuola in presenza, perché essa è, prima di tutto, socializzazione. Ritrovarsi faccia a faccia è il simbolo più vero ed efficace di una coabitazione civile, in cui poter dirsi che si sta attraversando una lunga prova insieme e che insieme se ne uscirà. La distanza ha permesso di cogliere il valore di tutto ciò e di capire come non ci sia didattica senza relazione. Del resto, la scuola è facilitatrice e custode delle relazioni: quelle con sé stessi, con i propri pari e con i contesti plurimi di ogni giorno. Insomma, con il mondo. 

Attraverso la Dad, ci può essere un insegnamento di qualità?

Credo sia importante definire cosa abbia significato, in quest’ultimo periodo, la Dad. Innanzitutto, vicinanza dei docenti ai discenti. Grazie alla tecnologia, gli insegnanti hanno detto agli studenti “noi ci siamo”. Ovviamente, la Dad ha permesso poi la trasmissione delle conoscenze. Questi strumenti, infine, hanno anche generato alcune forme di creatività fuori dagli schemi. Penso, per esempio, ai ruoli che si sono invertiti. A volte, infatti, capitava che fossero gli alunni a insegnare ai professori l’uso di certe applicazioni e di determinati programmi. Sarebbe quindi ingiusto demonizzare la Dad. Detto questo, non possiamo neanche esaltarla troppo o considerarla come la panacea per ogni male. Tramandare il sapere è molto importante e non può essere limitato o ridotto a una didattica formalmente asettica. La Dad è una modalità d’insegnamento monca, perché prescinde dalla sfera emotiva, non verbale, che copre l’80% della comunicazione umana. L’incontro tra le persone è molto più di quel che si pensa e di quel che si dice e i ragazzi apprendono la cura per la vita e per il mondo anche grazie ai gesti e agli atteggiamenti. E questo vale per tutte le materie, persino per matematica e fisica. Lo schermo è limitante: non c’è dinamica di gruppo e il messaggio latente è che l’apprendimento possa essere qualcosa di individuale. Non è così. È all’interno dell’interazione che si impara a vivere, a interpretare la realtà, a confrontarsi con la diversità dell’altro. La scuola, a livello sociologico e antropologico, è molto più che didattica a distanza. Perdere di vista questo, significa restaurare un modello educativo vecchio stampo, che non può più reggere con il presente che stiamo vivendo.

Il non poter recarsi fisicamente a scuola è stato nocivo per gli studenti?

Dalle testimonianze di alcuni adolescenti, si evince la percezione che sia stato rubato loro un anno prezioso e irripetibile della vita. Purtroppo, la distanza è stata anche separazione affettiva, frantumazione delle relazioni umane. Ansie e insicurezze sono aumentate, anche a causa di alcune parole che, ripetute ossessivamente, hanno stravolto l’immaginario dei ragazzi e creato quasi una sorta di ipnosi collettiva, di passività. Trovarsi sottomessi, da un giorno all’altro e con pochi strumenti, ad alcune regole coercitive lascia il segno. Le situazioni di solitudine e isolamento hanno comportato l’insorgere delle psicosi. Bisognerà prendersene cura con attenzione e delicatezza. A tal proposito, è importante che i genitori imparino a non trasmettere il proprio smarrimento ai più giovani. Anche nei momenti difficili, la vita è bella, non dobbiamo mai dimenticarlo. Sfortunatamente, però, l’angoscia degli adulti è dilagata nel cuore dei loro figli. Il disagio è palese e lo si nota dalla titubanza e dalla prudenza con cui anche i più piccoli, ora, si approcciano alla realtà. Ben venga, quindi, la riapertura delle scuole. 

Ansie, paure e insicurezze sono in aumento. C’è una responsabilità ascrivibile ai media?

Generalizzare è sempre sbagliato. Diciamo che alcuni giornali offrono, sempre più spesso, letture eccessivamente semplificate. Lo slogan non aiuta certo a sviluppare il pensiero critico dei ragazzi e, quindi, dei futuri cittadini. È proprio qui che entra in campo la scuola. La scuola deve insegnare a decodificare i messaggi stereotipati. Se tutto viene ridotto a banalità, non si comprende più dove si trovi il valore autentico della vita. Il rischio è che passi l’idea che la risposta ai complessi problemi esistenziali sia “vaccinazione e riapertura”. Non è così. Bisogna essere in grado di articolare i discorsi in modo rigoroso, per far sì che non si trasformino in giudizi e pregiudizi. 

Ci saranno strascichi?

Assolutamente sì, ci saranno strascichi. Le ferite di questo periodo avranno una durata molto lunga, ma il tempo le curerà. Bisogna fare in modo, però, che queste ferite non regrediscano ulteriormente. Già prima del virus, la nostra società era piena di rabbia, livore e aggressività. La pandemia ha rafforzato queste emozioni negative. È dalle esperienze più dolorose e difficili, però, che nasce l’apprendimento. La cultura predominante continua a premere affinché la caducità umana venga rimossa dalla narrazione quotidiana, come se non ne facesse parte. La vulnerabilità, però, è una caratteristica propria dell’uomo ed è compresa nell’esistenza. È proprio l’aver gettato un velo su sofferenza, malattia e morte, relegandole a tabù, ad aver reso le generazioni meno forti, meno attrezzate e più fragili. Forse, è tempo di imparare una grande lezione di vita. Forse, è ora di riappropriarsi delle nostre debolezze che, quando riconosciute, possono trasformarsi in solidarietà, in saggezza, in arte della convivenza. 

Ne usciremo migliori?

Sì, se sapremo prenderci cura in un’ottica comunitaria. Innanzitutto, prenderci cura di noi stessi. L’isolamento ci ha messo in contatto con la nostra vita interiore, con il nostro corpo, con il cibo, con la natura, con le piccole cose di ogni giorno. Per saper prenderci cura degli altri è necessario saper prenderci cura della nostra solitudine. Sarà importante, poi, prenderci cura dei docenti (in modo che ritrovino il gusto di lavorare in squadra) e di chi è più fragile. Fondamentale, inoltre, sarà prendersi cura delle famiglie, affinché i genitori non si sentano abbandonati. Infine, sarà bene prendersi cura del territorio, poiché è dall’interazione di quest’ultimo con la scuola che si possono comprendere al meglio le istanze future che nascono dalle nuove generazioni. 

«Dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva», recita un verso di Hölderlin. È così, dunque?

Come adulti, dobbiamo dire ai nostri ragazzi che anche un’esperienza regressiva come quella che hanno vissuto può essere letta come un’opportunità, come salto di qualità nel rapporto con la propria vita e nel rapporto con gli altri. La solitudine, in alcuni casi, è una buona occasione per vedere le dinamiche della realtà in prospettiva, prendere consapevolezza di ciò che è davvero essenziale e allontanarsi da alcune logiche che pensavamo assodate e che davamo per scontate. Il compito di insegnanti ed educatori sarà quello di aiutare i ragazzi a rielaborare emozioni ed esperienze anche molto dolorose. Nel ritornare a scuola in presenza, infatti, gli studenti potranno dare un significato nuovo alle cose vissute, ma solo se noi adulti accoglieremo questi disagi e sapremo accompagnarli anche attraverso gesti di vicinanza e atti di cura che avranno grande valore simbolico: occasioni preziose per creare mappe di senso capaci di far riappassionare al sapore del sapere e alla bellezza della vita comune.